Il surfista

“Ma che diavolo sta facendo?”.

“Chi?”.

“Quel tipo là in acqua, quello col costume verde”.

“Quello in piedi in quella posa ridicola?”.

“Eh, proprio lui. Sono venti minuti che è lì in posa come fosse su una tavola da surf, immobile, con gli occhialini e l’acqua che gli arriva alla cintola. Arriva l’onda, lo fa indietreggiare di qualche centimetro e lui torna nella posizione di prima. Arriva l’onda, lo trascina a riva e lui, tic-tic-tic, zampetta per tornare nel punto in cui si trovava”.

“Boh, sarà mica a posto. Comunque oggi il mare è proprio mosso”.

“E’ mosso sì, vacca rana. Io che pensavo di riuscire a fare un po’ di snorkeling. In questa baia ci sono dei pesci veramente interessanti”.

“Eh, ho visto che sei scammellato tutto il nécessaire. Che pesci ci sono?”.

“Non so come si chiamano. Sono piccoli e argentei e si muovono in banchi di circa una ventina di esemplari. Sono tipici di questa zona protetta”.

“Interessante. Ah, guarda il tuo amico, il surfista senza tavola, ogni tanto tenta di immergersi”.

“Sì, sì. Poi torna su nella posizione di prima e sfida fiero le onde”.

“Ah, ah ah, sfida le onde con lo sguardo, come un vero surfista. Peccato che abbia dimenticato a casa la tavola”.

“Oh, poi magari ha davvero dimenticato a casa la tavola e si sta allenando senza. Magari è un surfista professionista”.

“Secondo me è solo mica finito. Guardalo, è un pesce fuor d’acqua. Arriva un’onda più grossa e lo porta via. Guarda, eccola che arriva! Una bella ondona e… ah ah ah, spazzato via! Guarda, ha pure bevuto! Te l’ho detto, è un pesce fuor d’acqua”.

“Eppure guardalo, tic-tic-tic, torna al punto di prima”.

“Un vero lupo di mare”.

“Ah ah, sì però è strano, è come si trascinasse i piedi, senza staccarli dal fondale”.

“Si tiene ancorato, ha paura che il mare lo porti via. Ma senti un po’, niente snorkeling allora?”.

“No. Con questo mare non si vedrà niente. Ogni onda tira su sabbia e non si vede il fondo. È inutile sporcare la maschera per niente. Me ne starò qui a leggere”.

“Anch’io ho portato da leggere. Voglio starmene tranquillo e rilassato a finire il libro senza caos intorno. C’è voluto un po’ ad arrivarci a piedi, ma almeno, a parte il surfista e pochi altri, non c’è praticamente nessuno”.

“Sì, te l’ho detto. Appena ho letto su quel sito che questa è una baia piccola, non servita e difficilmente raggiungibile, se non con una lunga camminata a piedi, ho capito che faceva per noi”.

“Già, d’altronde si va in ferie una volta l’anno e per una volta che non ho intorno gente che rompe di continuo, come in ufficio, me la voglio proprio godere”.

“Parole sante”.

“Oh, il surfista? È sparito?”.

“No, eccolo lì che riemerge. Chissà che diavolo sta facendo”.

Mentre i due amici si interrogavano sul suo bizzarro comportamento, Carlo era impegnato in una vera e propria lotta contro gli elementi.

Anzi, un elemento, che per altro, non era neppure il suo.

Il suo rapporto con l’acqua affondava – letteralmente – le radici nel corso di nuoto fatto in quinta elementare.

L’istruttore li aveva fatti tuffare per recuperare un oggetto sul fondo della vasca, ma quando toccò a Carlo, fu proprio lui ad essere recuperato sul fondo.

Non era un nuotatore provetto, insomma, ma quel giorno si era volontariamente recato in quella caletta sconosciuta perché era l’unica ad avere un fondale roccioso con un particolare tipo di sedimento, introvabile nel resto del territorio delle Balerari.

Carlo, geologo, aveva una passione per le rocce.

Montagne e grotte non avevano segreti per lui.

E, col suo entusiasmo, contagiava anche chi gli stava intorno.

Memorabile il giorno in cui la sua fidanzata, durante una vacanza, si trovò recapitato un pacco in camera.

Eccitatissima, lo aprì con foga, aspettandosi un vestito dal suo innamorato.

Potete quindi immaginare il suo “stupore” quando si ritrovò tra le mani una tuta da speleologia.

“Ho visto un buco nel terreno qui dietro l’albergo”, le disse Carlo ammiccando.

“Nel quale viveva un hobbit…”, risposte sarcastica la fidanzata.

Ad ogni modo, tornando alla nostra storia, l’entusiasta Carlo aveva saputo di quel sedimento e voleva assolutamente prelevare un campione per la sua collezione.

Il problema era che quel particolare strato roccioso si trovava a circa dieci metri dalla spiaggia. Non un grosso problema alle Baleari, dove il mare è poco profondo per decine e decine di metri, ma quel giorno particolare soffiava un vento fortissimo e le onde erano veramente impetuose.

Dannazione”, pensò Carlo, “oggi è l’ultimo giorno utile per recuperare un campione e io non riesco ad immergermi. Dannazione, dopo tutto l’esercizio di ieri!”.

Il giovane geologo aveva passato tutto il giorno precedente nella parte con acqua bassa di una piscina, dove si era esercitato ad immergersi per recuperare oggetti sul fondale, in modo da essere pronto per prelevare il suo campione e, in fondo in fondo, riscattare anche sé stesso dalla magra figura fatta in quinta elementare.

Intendiamoci, per “immergersi”, stiamo parlando di una profondità di 110 cm, che però per Carlo era già ragguardevole.

Infilare la testa sott’acqua, insomma, era di per sé una conquista.

Dopo ore di prove era riuscito ad acquisire una certa abilità: riusciva a tuffarsi (da fermo), spingersi con le gambe sul fondo, recuperare una moneta con le mani e tornare in superficie.

Si era preparato meticolosamente, insomma, ma non aveva fatto i conti con il mare mosso.

Le onde gli impedivano di stare sott’acqua.

Ogni ondata, oltre a spostarlo dalla sua posizione, smuoveva sabbia dal fondale, impedendogli quindi di ritrovare immediatamente il punto in cui affiorava il sedimento.

Era una lotta impari, uomo contro il mare, ma mentre il mare “era” il suo elemento, Carlo era un pesce fuor d’acqua.

Dannazione”, pensò nuovamente, “non mi resta molto tempo, tra poco dovrò rientrare in albergo. Ma come faccio a prendere un sasso se non vedo niente? Va beh, a mali estremi, estremi rimedi!”.

Il giovane si era dapprima imposto di recuperare il suo campione immergendosi come aveva provato e riprovato il dì seguente, riscattando così il suo onore oltre che il suo premio.

Ma, di fronte alla furia del mare, decise di adottare un’altra strategia.

Bene”, pensò, “se non posso vedere, posso pur sempre ‘toccare’”.

In quel frangente Carlo scavò quindi dentro sé stesso, ritrovando, sepolto nel profondo, il primate ancora presente in lui.

Chiuse le dita dei piedi sulla sabbia, in modo da rimanervi aggrappato.

Ma la prima ondata gli fece capire che era una mossa inutile, anzi, controproducente, in quanto smuoveva ancora più sabbia.

Impossibilitato a vedere il fondale cominciò a tastarlo col piede destro, mentre col sinistro si bilanciava, assumendo quella caratteristica posa da “surfista” che aveva attirato l’attenzione dei due amici sulla spiaggia.

La sua lotta con il mare durò circa mezz’ora.

Mezz’ora in cui lui raggiungeva il piccolo affioramento roccioso che gli interessava, vi si aggrappava con un piede, tastando poi intorno in cerca di rocce o sassi da prelevare.

Poi arrivava un’onda, lo ributtava indietro e ricominciava la scena.

Alla fine però la fortuna (o il mare) volle premiare la tenacia di Carlo.

Col piede destro afferrò un sasso, alzò la gamba e lo prese nella mano sinistra.

Mentre era su una gamba sola, un’ondata lo proiettò a riva.

Riemerse dai flutti come un eroe antico, ma sputando acqua e tossendo come un fumatore incallito.

Tornò al suo asciugamano passando davanti ai due amici che, nel frattempo, non avevano smesso di ammirarne le gesta.

“Ué giovane! Italiano? Sì? Eh, che tempaccio oggi, mattinata infruttuosa in mare né?”.

“Non direi proprio”, rispose Carlo mostrando il suo trofeo.

“Un sasso? Ossignore… Geologo?”.

“Vulcanologo per la precisione”, rispose Carlo.

Lo “spiegone” che seguì durò circa quaranta minuti.

In quel lasso di tempo Carlo illustrò come le rocce siano “magiche”, nel senso che ci parlano e raccontano storie dei tempi passati.

Tutte le pietre hanno una storia da raccontare.

Alcune sono arrivate dallo spazio, altre sono nate in fondo al mare ed ora sono in cima alle montagne, altre ancora sono nate dal fuoco dei vulcani, etc…”.

“Insomma”, si congedò Carlo, “c’è una storia per ogni pietra. Se volete saperne di più potete visitare il mio blog. L’indirizzo lo trovate sulla mia pagina dell’università. Adios!”.

“Adios!”, risposero in coro i due amici.

“Ué Gianni, hai sentito? Le pietre parlano”.

“A quanto pare…”.

“Chissà cosa dice quella roccia. E quella? E quella? E quella?”.

“Senti Mario, facciamo un bel mestiere, andiamo a berci un gin tonic al bar dell’albergo. Ero venuto qui per stare tranquillo, ma…”.

Gianni guardò la spiaggia rocciosa in cui si trovavano, “qui è pieno di chiacchieroni. Vamonos!”.

Sul fondo della tazza

“Angelo, Angelo, è successa una cosa di fuori!”.

Il barista fissò la cameriera con sguardo annoiato, mentre finiva di riporre le tazzine del caffè.

“Hai rovesciato qualcosa?”, domandò.

“No”.

“Hai sbagliato a prendere un’ordinazione?”.

“No”.

“Qualcuno si sta lamentando di qualcosa?”.

“No, ma…”.

“Allora non è successo niente”, concluse il barista sistemando le ultime tazzine.

“No, no, ascolta. Seduta qui fuori… c’è una veggente”.

“Una zingara? Mandala via, non vogliamo rogne”.

“No, non una zingara, è una ragazza normale, ma… penso sia in grado di vedere il futuro”.

“Martina, non te l’ho mai detto, te lo confesso ora. Anch’io sono in grado di prevedere il futuro. Prevedo che finiremo quanto prima di pulire i tavoli, i clienti di fuori tra poco finiranno di fare colazione. Noi raccatteremo tutto, laveremo le tazze i piatti e i piattini. Poi mi vedo preparare gli aperitivi per mezzogiorno”.

La ragazzina incrociò le braccia e sbuffò alzando gli occhi.

“E ti dirò di più”, proseguì il barista, “questo pomeriggio vedo che salirò sul furgone e andrò a fare la spesa, perché stasera è sabato sera e ci saranno almeno cinquanta persone che passeranno di qui a fare l’aperitivo. Poi dopo cena mi vedo distendermi sul divano a vedere la partita e andare a letto appena conclusa perché… vedo me stesso alzarmi alle quattro domani mattina per andare ad accendere il forno e preparare il pane e le brioche perché sarà domenica mattina e ci saranno altrettante persone che verranno a fare colazione. Mi vedo preparare caffè e cappuccini e vedo te che mi girerai intorno facendomi perdere tempo, proprio come ora”.

La ragazza lo fissò con lo sguardo corrucciato.

“Sto parlando seriamente”, disse, “prima sono uscita a prendere le ordinazioni e sono passata accanto al tavolino dov’è seduta la ragazza. Era immobile e fissava il fondo della tazza vuota con un’espressione a dir poco sconvolta! Pensai che doveva aver visto qualcosa di terribile. E stava fissando il fondo della tazza come fanno le maghe!”.

Il barista sospirò e buttò un’occhiata di fuori.
“E’ la ragazza seduta da sola al tavolino numero 2? Quella con la maglietta viola?”.

“E’ lilla, ma sì, è lei”, puntualizzò la ragazza.

“Ha mica preso un cappuccino? Da che ne so, per quanto non me ne importi nulla, il futuro mica lo leggono sul fondo delle tazze di thé? O erano di caffè?”.

“Entrambe”, rispose la cameriera, “ma magari da qualsiasi fondo, come facciamo a saperlo? In ogni caso era chiaramente disperata. Sono uscita poco dopo a portare le colazioni e mentre sparecchiavo e pulivo il tavolo dietro di lei la sentivo ripetere ‘A me… proprio a me. Perché proprio a me?’ . Mi sono voltata un attimo ed era ancora lì che fissava il fondo della tazza ripetendo quelle parole. Deve aver visto qualcosa di veramente terribile. Penso… penso addirittura la morte di qualcuno!”.

“Ohi, adesso datti una calmata!”, la rimproverò il padrone, “che cose dici?”.

“Ripeteva di continuo quella frase. Sono rientrata a portare il vassoio, poi sono uscita immediatamente. Le sono girata un po’ intorno per cercare di capire qualcosa di più. E l’ho sentita fare una telefonata. Deve aver chiamato il fidanzato, non lo so, comunque ripeteva ancora quella frase, ‘A me… proprio a me. Perché proprio a me?’. Sono rimasta a far finta di pulire un tavolino…”.

“In che senso a far finta?”, chiese il barista.

“No, lo stavo pulendo, ma ci stavo impiegando apposta più tempo per ascoltare un pò”.

“Ossignore”, mormorò l’altro.

“Insomma, mentre parlava alla fine l’ho sentita aggiungere ‘ho visto il suo cadavere. Era lì… rigido, stecchito‘. Cavolo, quello, più quello che ha detto prima, è ovvio che deve aver visto accadere qualcosa di terribile a qualcuno che conosce. Forse addirittura un parente. Oddio, non oso neppure immaginare lo shock!”.

Angelo stava mettendo a posto le posate, lo guardo era un po’ più corrucciato.

“Ma magari stava pensando ad altro”.

“Cosa?”.

“Non saprei, magari…”.

“Magari cosa?”, la ragazza alzò il tono mentre lo raggiungeva dietro il bancone, “fissava la tazza, era sconvolta, parlava da sola chiedendosi perché proprio a lei, ha chiamato qualcuno dicendogli di aver visto il cadavere di qualcuno, sempre fissando il fondo della tazza. È ovvio che ha visto il futuro di qualcuno, cos’altro, dài! Ossignore, eccola che arriva”, disse abbassando la voce, “guardala, guarda che faccia ha. Poverina, non riesco neppure ad immaginare cosa stia passando”.

Il barista si spostò alla cassa, raggiunto dalla ragazza e seguito dalla cameriera.

“Tutto… tutto bene?”, domandò Angelo con voce incerta.

“Insomma”, rispose la cliente, senza alzare lo sguardo e cercando il portafogli nella borsetta.

“Sono… ecco. Ahi”, Martina aveva tirato una gomitata al capo, e con occhi sbarrati lo fissò e poi inclinò il capo verso la ragazza che nel frattempo aveva trovato il portamonete.

“Guardala, poverina”, sussurrò.

Il barista sopirò e, con lo sguardo basso disse alla giovane.

“Senti oggi… oggi la colazione è offerta. Era… sì insomma è offerta”.

“Grazie”, rispose la cliente, “beh insomma, ci sarebbe mancato altro. Un mosca così grossa nel cappuccio è veramente imperdonabile. Come avete fatto a non vederla? E mi è pure finita in bocca. Meno male che mi sono accorta e l’ho sputata. Oddio che schifo, mi viene ancora da vomitare. Attenzione che non l’ho tolta, mi faceva troppo senso”.

E se ne andò ancora mormorando: “Che schifo. A Me! Ma perché proprio a me…”.

Il barista era immobile con la tazza in mano a mezz’aria.

Dopo un momento, guardò la tazza e vide la mosca sul fondo.

“Beh, era bella grossa in effetti”, disse.

“Ecco dov’era finita quella mosca che continuava a rompere le scatole stamattina!”, esclamò la cameriera, “era veramente insopportabile. Ad un certo punto ho cominciato ad agitare lo straccio cercando di colpirla. Dovevi vedermi, sembravo un ninja”.

“Sì”, proseguì Angelo, “ora ti prevedo nuovamente il futuro. Vedo te che prendi questa tazza e fai sparire quella dannata mosca. Poi ti vedo togliere il grembiule, prendere il tuo motorino e andare in ferramenta a prendere la rete da mettere sulla porta per sostituire quella che hai rotto la scorsa settimana”.

“Che carattere”, rispose la ragazza, “non è mica colpa mia se l’hai montata su male ed è venuta giù praticamente appena l’ho presa dentro”.

“Martina. Se non vuoi che preveda qualcosa di più nefasto…”.

“Vado, vado ho capito. Mamma mia che carattere, uno non può proprio dire nien…”.

Lo straccio non la colpì in pieno viso grazie ai suoi riflessi che sono, quelli sì, una caratteristica prettamente umana di prevedere il futuro. Anticipare alcune azioni al fine di garantire la propria sopravvivenza. Vedendo lo sguardo arrabbiato sul viso del barista, il braccio che andava indietro e lo straccio appallottolato in mano, il suo cervello aveva attivato quell’adattamento evolutivo che chiamiamo causa-effetto. Viste delle premesse si anticipano gli effetti se questi possono essere nocivi per la nostra persona.

Per evitare ulteriori conseguenze, corse di fuori verso il motorino, ma non prima di aver lanciato a sua volta il grembiule verso il suo capo che, a contrario di lei, lo prese dritto in faccia.

Cosa coerente in effetti, in quanto lui non credeva alle veggenti.

Il gatto nel microscopio

L’universo è indeciso.

Questo è ciò che Luca Montini avrebbe dovuto rispondere al nipote quando questi gli chiese di spiegargli il paradosso del gatto di Schrödinger.

L’universo è indeciso.

Punto.

Il Dr. Montini invece si dilungò in un’interminabile e, soprattutto, inconcludente dissertazione sulla meccanica quantistica.

Paradosso di Einstein-Podolsky-Rosen, principio di sovrapposizione, stati quantici.

La spiegazione si concluse con un sudato e tremendamente imbarazzato Montini mentre il ragazzino aveva trovato rifugio, conforto e chiarezza nel suo smartphone.

Il povero Luca ci rimase particolarmente male perché aveva capito che il nipote non gli avrebbe domandato più nulla inerente alla fisica.

Molto più probabilmente, non gli avrebbe chiesto più nulla in generale.

E di questo rimase un poco rammaricato perché, tutto sommato, gli piaceva parlare di fisica e provava anche un certo piacere quando riusciva a far comprendere qualcosa di complicato a chi non era avvezzo.

Purtroppo non fu quello il caso.

C’è da dire che l’argomento non era affatto dei più semplici.

In sostanza, si tratta di un esperimento mentale (e già qui…) nell’ambito della meccanica quantistica. In questo esperimento un gatto rinchiuso in una scatola, potrebbe essere o meno vittima di avvelenamento a seconda che un atomo di una sostanza radioattiva sempre all’interno della scatola, si disintegri o meno azionando un dispositivo che va a rompere a sua volta, una fiala contenente del cianuro.

Dal momento che la meccanica quantistica considera la realtà in termini probabilistici, e dal momento che non possiamo sapere se l’atomo della sostanza radioattiva di disintegri o meno, finché non si aprirà la scatola, il gatto sarà, nel contempo, sia vivo che morto.

Il Dr. Montini anziché provare a spiegare il paradosso in questi termini si mise a snocciolare nomi complicatissimi e a scrivere complicate equazioni, senza riuscire a trovare una risposta più semplice.

Eppure, come sempre, quando meno ce lo si aspetta, l’universo è in grado di sbatterti in faccia la risposta che stavi cercando.
Ma non sempre nel modo in cui te la saresti aspettata.

Luca Montini vi incappò nella il Lunedì mattina, poco dopo essere arrivato al lavoro.

Doveva programmare un esperimento di lì ad un paio di settimane ed avrebbe dovuto utilizzare per una settimana intera il microscopio elettronico.

Cominciò quindi a chiedere ai colleghi del suo laboratorio se qualcuno di essi avrebbe dovuto utilizzare lo stesso strumento al fine di evitare sovrapposizioni.

Nessuno degli interpellati avrebbe avuto bisogno dello strumento, finché giunse a Filippo (Pippo) Vismara.

“Pippo, tra due settimane vorrei fare l’esperimento per il capo e mi servirà il microscopio elettronico per una settimana di fila. Te dovrai usarlo nelle prossime due settimane? Altrimenti lo prenoto e mi organizzo per avviare la sperimentazione la prossima settimana”.

Filippo Vismara si appoggiò allo schienale della sedia incrociando le braccia dietro la testa per stirarsi.

“Mmm… mah. In teoria non dovrebbe servirmi”.

“In teoria. In pratica?”.

“Mmm… no. Non penso”.

“In che senso non pensi?”.

“Non dovrebbe servirmi”.

“Lo saprai se ti servirà o meno. Devi fare diffrazioni?”.

“No”.

“Ok, allora posso prenotarlo io”.

“A meno che non mi chiedano di rifare le analisi per l’articolo che sto scrivendo”.

“Ok. Te l’hanno chiesto?”.

“No”.

“Allora prenoto io”.

“Boh…”.
“Boh, cosa?”.

“Non saprei. Cioè, se avessi dovuto rifarle in teoria me l’avrebbero detto”.

“Appunto”.

“Però cinque mesi fa a Gallieni, quello del piano di sopra, gliel’hanno detto all’ultimo”.

“E quindi?”.

“Eh non so”.

“Ok. Ma io cosa faccio? Ho un esperimento da programmare e non posso andare troppo in là. Il microscopio non serve a nessuno nelle prossime due settimane. E se te non hai nulla di definito, allora programmerei le mie attività”.

“Guarda, io ti direi di sì”.

“Ok”.

“Ma…”.

“Ma?”.

“Ma… non lo so. Se poi mi chiedono di rifare le analisi?”.

“Senti Pippo, mi serve per una settimana. Le analisi potrai farle dopo no?”.

“Per me si potrebbe fare così, certo. Però poi non so se il capo sarà d’accordo”.

“Ho capito. Ma, in questo momento, io ho un esperimento sicuro da fare e tu delle analisi che non sei sicuro di dover rifare. Direi che posso procedere io no?”.

“Mah… secondo me sì. Però se poi mi dovesse servire?”.

“Ma non ti serve ora no?”.

“Non al momento”.

“Ok, ma io devo prenotarlo nelle prossime settimane, non posso aspettare che tu sia sicuro per ogni momento fino a quando uscirà il tuo articolo”.

“Sì certo, lo capisco”.

“Quindi prenoto, perché a te non serve”.

“Non adesso. Però boh, potrebbe servirmi nelle prossime settimane”.

“Ma non lo sai!”.

“Non ora”.

“Quindi non ti serve”.

“Non ancora”.

“Senti, la conversazione sta assumendo toni grotteschi. Non può servirti e non servirti nello stesso tempo. Semplifichiamola portandola ad un sistema binario: 0 e 1.

0 = non ti serve il microscopio

1 = ti serve il microscopio

Domanda: ti serve il microscopio?”.

Il Dr. Vismara fissò il collega per interminabili secondi senza rispondere.

“Ti serve o non ti serve?”.

Tre settimane più tardi il Dr. Montini entrò in ufficio il Lunedì mattina, salutò i colleghi e andò alla sua postazione passando accanto a quella del collega Vismara che stava leggendo una rivista.

“Ehi Luca!”, lo chiamò quest’ultimo, “me l’hanno pubblicato! L’articolo! Grandi risultati al primo colpo! Che bomber che sono. Ah, il microscopio che mi chiedevi, non mi serve ovviamente”.

Poco dopo, Luca Montini incrociò nel corridoio il suo capo che, con un sorrisetto, gli domandò beffardo:
“Allora Montini, questo esperimento lo vogliamo far partire o siamo confidenti che le nostre ipotesi siano corrette per principio?”.

“Dottore, settimana prossima parto. Ho avuto un contrattempo col microscopio”.

“Cos’aveva?”.

“C’era un gatto sotto che non se ne voleva andare”.

Erwin Schrödinger (1933) – Fonte: Wikipedia

L’ingarbugliato mistero del corsello box

Il signor Angelo da qualche tempo era turbato.

Era turbato dal fatto che credeva di essersi trovato, suo malgrado, coinvolto in un mistero.

A dargli pensiero era il suo vicino di garage, un giovane che sapeva chiamarsi Luca e che, dalle poche parole che si erano scambiati di tanto in tanto, faceva il fisico di professione.

Non gli era ben chiaro di che genere di fisico si trattasse, se un insegnate di ginnastica o un istruttore in una palestra o uno di quelli che scrivono equazioni complicate per descrivere l’ovvio, come ad esempio: le cose cadono.

Il signor Angelo era in pensione da circa un anno, dopo che aveva lasciato ad un nipote la gestione della libreria che aveva aperto una ventina di anni prima.

Talvolta in settimana dava una mano al giovane, mentre il sabato lo teneva tutto per sé, per potersi finalmente dedicare ad una delle sue attività preferite e troppo spesso rilegata nei ritagli di tempo: fare la spesa al supermercato.

Ogni sabato pomeriggio, il signor Angelo si recava nel suo supermercato favorito e procedeva agli acquisti per la settimana successiva.

Era un uomo a cui piaceva avere tutto in ordine, dai libri sugli scaffali alle scatole di fagioli in dispensa.

Non c’era spazio per le stranezze e per le cose fuori posto nella sua vita.

Ed era proprio per questo motivo che la faccenda del vicino di garage lo indisponeva in tal modo.

Tutto aveva avuto inizio il mese precedente.

Il signor Angelo era appena rientrato dalla spesa e stava facendo avanti e indietro tra il suo box e la dispensa ben organizzata in cantina.

In questo modo, si ritrovò a passare più volte davanti al garage del vicino, il quale aveva la cler quasi totalmente abbassata, cosa che gli impediva di sbirciare all’interno.

Fatto sta che, mentre stava passandovi dinanzi di ritorno dalla cantina, udì la voce del vicino:

“Eccoci arrivati. Questa sarà la tua nuova casa. Ci divertiremo insieme, vedrai”.

Il signor Angelo rimase vagamente interdetto: il signor Luca aveva preso un animale da compagnia e lo lasciava in garage?

Dopo qualche giro, udì nuovamente: “la tua predecessora è stata fedele fino alla fine. Mi raccomando, hai una grossa eredità da portare avanti”.

Il signor Angelo rimase nuovamente di stucco.

Ma come? Il signor Luca aveva già avuto un altro animale domestico in box? Com’era possibile che non se ne fosse mai accorto? E poi, il regolamento condominiale consentiva di tenere animali domestici in garage? Avrebbe dovuto scrivere all’amministratore per accertarsene.

Per tutta la settimana successiva il signor Angelo non se ne preoccupò più.

Il suo unico pensiero era legato al fatto che il nipote aveva allestito una sezione dedicata ai libri di montagna, cosa che lui aveva sempre ritenuto inutile.

“Fidati zio, in questi ultimi anni un sacco di gente si è avvicinata alla montagna. Guide e libri di alpinismo stanno vendendo bene. Sento sempre più persone che ne parlano anche quando vado ad arrampicare. Ci parlo assieme così capisco quelli che sono i gusti, le preferenze, cosa la gente vuole ed intanto faccio anche un po’ di pubblicità alla libreria”.

Il sabato seguente, rientrato dalla spesa, il signor Angelo notò nuovamente la cler del vicino leggermente alzata e gli tornò alla mente l’episodio della settimana precedente.

Passando davanti al garage del signor Luca rallentò quindi un poco in maniera da poter ascoltare meglio.

“Bravissima, brava. Abbiamo fatto un ottimo lavoro oggi né? Ti sei divertita? Bravissima, sei così elastica”.

Il signor Angelo sobbalzò.

Sei così elastica. Ci siamo divertiti.

Cosa voleva dire?

Il rumore di una cler che si alzava alle sue spalle lo fece sobbalzare e si diresse di corsa in cantina per evitare di essere visto indugiare troppo fuori da un garage altrui, col rischio di essere etichettato come uno spione.

Quella settimana, tuttavia, continuò a pensare a quelle frasi enigmatiche ed aspettò con impazienza il sabato seguente.

Giunto il fine settimana, fece in fretta la spesa (fatto decisamente insolito per i suoi standard qualitativi), sistemò tutto rapidamente nella dispensa (altro fatto decisamente straordinario), quindi fece ritorno nel suo box fingendo di metterlo in ordine.

Erano all’incirca le 18.30 quando sentì il vicino arrivare in macchina. Tese le orecchie e appena lo sentì parlare, uscì adottando una furbizia che aveva escogitato al fine di evitare di passare per uno che non si sa fare gli affari propri.

Con in mano una scopa finse di pulire l’ingresso del proprio box.

Nel frattempo le orecchie erano protese verso quello di fianco.

“Ma che cavolo”, sentì lamentarsi il vicino, “che cavolo avevi oggi? Eri tutta agitata, continuavi a farti su, ti tiravo e non volevi saperne di venire. Non collaboravi, facevi i dispetti. Non ci siamo, non ci siamo proprio se andiamo avanti così”.

Il tranquillo spirito borghese del signor Angelo fu messo a dura prova.

Che toni, pensò, cosa gli avrà mai fatto quella creatura?

E lui, cosa poteva fare?

Avrebbe dovuto intervenire in qualche modo.

Ma come?

Quella sera a cena si confidò con la moglie, la quale gli rispose:
“Lascia stare quel giovanotto. È sempre impegnato col lavoro, lascialo tranquillo. Piuttosto, trovati te qualcosa da fare: entra nella protezione civile, sei in pensione, basta pensare solo alla spesa e ai libri che prende Carlo per la libreria”.

“Sì cara, ma quelle frasi”.

“Usa la testa, cosa pensi che abbia, una ragazza rinchiusa in garage?”.

Ecco, a quella opzione, ancor più inquietante, non aveva pensato.
Sei così elastica.

Ci siamo divertiti.

La tua predecessora è stata fedele fino alla fine.

Ossignore, la situazione andava facendosi sempre più intricata e con sfumature noir.

Come poteva lasciar perdere?

Un uomo integerrimo come lui, che aveva sempre pagato le tasse e che una volta, dopo aver regalato un libro ad un bambino, si pagò il volume, emettendosi regolare scontrino.

Lui, proprio lui, non poteva lasciar correre un simile… intrigo.

Decise di raccogliere nuove prove, perciò il sabato successivo si organizzò in modo da prendersi più tempo per stare fuori dal box del vicino ad origliare.

In genere il sabato pomeriggio il signor Luca rientrava a partire dalle 18, a quell’ora quindi mise in atto il piano che aveva studiato per tutta la settimana. Fece avanti e indietro tra box e cantina come se stesse riorganizzando il garage (cosa che faceva regolamentare due volte l’anno, ad aprile e ad ottobre), sperando che il fatto di essere a settembre non risultasse sospetto agli altri condomini.

Nel suo andirivieni, fece ad un tratto cadere una bottiglia di vermentino davanti al box del vicino.

La bottiglia era in realtà riempita d’acqua, a simulare il vermentino, ma in tal modo avrebbe avuto la scusa di mettersi a pulire con lo straccio, ma senza il fastidio dell’appiccicaticcio.

Sono un genio, pensò il signor Angelo, tutte quelle letture di Agatha Christie non sono state vane. Ho proprio lo spirito dell’investigatore dilettante.

Per rendere più credibile la messinscena esclamò anche un fin troppo teatrale: “oh no! Il vermentino. Con quello che mi è costato!”.

Senza indugiare oltre prese secchio e spazzolone e si nascose nel locale immondizia a riempire d’acqua il catino.

Lì rimase rintanato spiando il corsello box ogni qual volta sentiva arrivare un’auto, finché non rientrò anche il vicino. Attese fino a quando non lo vide entrare in box e socchiudere la cler, al che si precipitò a pulire con acqua l’acqua versata sul pavimento.

Quello che udì gli fece accapponare la pelle:

“Ci hai quasi fatti ammazzare oggi! Sotto il temporale e te che non ne volevi sapere si stare in ordine. Tutta arricciata, tutta contorta, ogni volta che cercavo di buttarti giù, te lì che ti ribellavi. Dovrei tagliarti a pezzi, saresti certamente più utile”.

Il signor Angelo era pietrificato.

Rimase immobile, con in mano lo spazzolone con cui stava lavando l’acqua.

D’un tratto si riprese e corse nel suo box.

Che faccio?, pensò, che fare? Devo avvisare qualcuno, quella creatura è in pericolo. Devo avvisare l’Enpa… o i carabinieri? Oh, che pasticcio!

Rientrò in casa per cena dove trovò ad attenderlo la moglie ed il nipote.

“Angelo, finalmente sei risalito, guarda, Carlo ha portato una bottiglia per festeggiare il suo primo anno di gestione della libreria: sta andando benissimo”.

“Più 5% rispetto allo stesso trimestre dello scorso anno. E la sezione montagna sta tirando moltissimo”.

“Angelo, che hai? Sei pallidissimo. Carlo, forza, apri quella bottiglia che ce n’è bisogno”.

“Luisa, non hai idea di cosa ho sentito fuori dal box del Montini”.

“Ancora con questa storia? Angelo, hai stufato”.

“Ha detto che l’avrebbe fatta a pezzi, che sarebbe stata più utile”.

“Cosa, la corda?”, domandò il nipote, “eh sì, a volte fanno davvero dannare, sì”.

“Sì, proprio quella”, confermò la signora Luisa.

“Corda? Quale corda?”.

“Angelo. Perché anziché impicciarti degli affari degli altri e farti trame nella testa manco fossero un romanzo della signora Christie, non provi a parlare un po’ insieme alle persone? Se ti fossi fermato a fare quattro chiacchiere con il signor Luca, ad esempio con un cortese ‘Come sta?’, ti avrebbe tenuto lì a parlare prima del lavoro e poi di quanto è contento di aver ripreso ad andare in montagna a scalare. E ti avrebbe fatto vedere la nuova parete in legno che ha messo in box per organizzare tutto il materiale che usa. E ti avrebbe mostrato anche la nuova corda che ha preso da poco”.

“Ha detto che l’avrebbe fatta a pezzi, che sarebbe stata più utile”.

“Ci avrebbe fatto dei cordini. Sì, ragionevole”, disse il nipote.

Il signor Angelo fissò sbalordito prima il nipote poi la moglie.

“Tu sapevi tutto e non mi hai detto nulla”.

“Ti ho detto di non impicciarti e di trovarti qualcosa da fare”.

“Ma scusate, non può essere, parlava con una corda?”.

“La corda è la tua migliore amica quando sei in parete”, rispose il nipote, “ci parli eccome. E lei risponde”.

Il signor Angelo fissò il nipote come fosse matto e chiedendosi se avesse fatto bene a lasciargli la sua libreria.

“In che senso… risponde?”.

“Ti racconta cosa sta succedendo alla cordata. Alcune volte capita che i due scalatori non riescano a vedersi. Con la corda si mandano quindi dei segnali e, attraverso degli strattoni, si dice quando si può liberare la corda e quando il compagno può cominciare a scalare. La corda poi racconta allo scalatore in sosta cosa sta facendo il compagno. Attraverso le vibrazioni sussurra ai polpastrelli di chi l’ha in mano, raccontandogli se il compagno sta salendo tranquillo, se è in difficoltà, se è caduto, se sta riposando”.

“Robe da matti”, disse il signor Angelo.

“Saresti dovuto andare con mio fratello quando te lo aveva proposto. Ma tu no, c’è la libreria. Come vedi, il mondo è pieno di storie e a raccontarle non sono solo i libri. Carlo su, apri quella bottiglia ora. Ti fermi a cena vero?”.

Il sabato seguente il signor Angelo stava scaricando la spesa quando sentì arrivare il vicino.

Ormai per abitudine, si scoprì con l’orecchio teso, in ascolto.

“Sei stata bravissima. Mi hai veramente salvato le chiappe oggi. Sapevo che quella scaglietta per il piede non avrebbe tenuto, ma non trovavo altro e mi ci sono appoggiato ugualmente”.

“Buonasera signor Montini”.

“Ah, buonasera signor Mondonico. Come sta?”.

“Non mi lamento”, rispose il signor Angelo dal corsello box, “lei?”.

“Tutto bene, dài. Il sabato va sempre bene”.

“E’ andato da qualche parte?”.

“Sono andato a scalare in Valsassina. Ma prego, aspetti che la faccio entrare”.

Il signor Angelo ebbe così modo di vedere la famosa parete. Era piena di cordini, moschettoni, c’era un martello, dei chiodi e degli attrezzi che non aveva idea di cosa fossero. E la famosa corda era lì in terra srotolata.

“Mi scusi, nel frattempo finisco di fare su la corda”.

“Prego, faccia pure. E’ molto che l’ha presa?”.

“Un mesetto circa. La piccolina mi dà un sacco di pensieri”, rispose ridendo Luca.

“Ah. Ne parla come se avesse un’anima”.

“Ce l’ha infatti. E non parlo dell’anima che sta racchiusa dentro alla calza, i filamenti che ne costituiscono il cuore. No, le corde hanno un’anima che va ben oltre la struttura poliammidica, ne sono convito. Si divertono, sono delle giocherellone e talvolta anche un po’ dispettose.

Pensi, un paio di settimane fa stavo preparando una calata e questa qua non ne voleva sapere. Continuava ad aggrovigliarsi, e certamente lo fa di proposito, a formare tanti nodi, alcuni poi che si direbbero impossibili da realizzare senza la volontà di farlo e che si troverebbero degnamente rappresentati tra le pagine più ostiche di un manuale di topologia.

Quanto le ho urlato dietro.

La scorsa settimana io e il mio compagno di scalate siamo stati sorpresi da un temporale. O meglio, il temporale era previsto, ma noi siamo partiti ugualmente pensando di essere più veloci ed avere più tempo. Morale, ci siamo ritrovati sotto una pioggia che era quasi grandine, con la corda che non ne voleva sapere di stare in ordine e con ancora un paio di calate da fare. Siamo arrivati giù inzuppati come non mai. Quella sera avevo quasi pensato di tagliarla per fare dei cordini”.

“Ma pensi”, commentò a caso il signor Angelo.

“Già. Eppure oggi mi ha salvato il culo, mi perdoni il termine”.

“Ah si?”.

“Eh già. Ha ceduto un appoggio ed ho fatto un volo di sei metri. La corda però è ancora bella elastica ed ha tenuto benissimo la caduta. A parte qualche graffio, non mi sono fatto niente”.

Il signor Angelo non poteva neppure immaginare cosa potesse voler dire cadere da una montagna per sei metri e rimanere appeso ad una corda.

Però era incuriosito, quella storia delle corde che raccontano storie lo aveva in un certo qual modo affascinato.

“Bisogna fare dei corsi per andare a scalare?”, chiese.

“Signor Angelo, non è e piacerebbe provare una volta? Settimana prossima il mio amico è impegnato e se vuole posso portarla a fare qualcosa di facile, giusto per provare”.

“Oh, la ringrazio, ma non so se posso. Ci sarebbe la spesa da fare e…”.

“Angelo, dove sei?”.

“Luisa sono nel box del signor Montini”.

“Oh, buonasera Luca. Ha fatto una bella gita oggi?”.
“Buonasera, signora. Sì, la ringrazio. Mi sono appena permesso di invitare suo marito per una scalata facile il prossimo sabato”.

“Angelo, ma che bella idea. Perché non vai?”.

“Ma… Luisa. La spesa, le pulizie”.

“Angelo, siamo a casa in pensione. La spesa direi che potremmo anche farla di venerdì, che dici? Secondo me dovresti andare, un’uscita in montagna non può che farti bene”.

“Allora è deciso”, disse Luca.

“Allora… va bene!”, risposte il signor Angelo.

“Ottimo, ora vieni su che è pronto. Buonasera Luca”.

“Buonasera e buon appetito”.

Mentre uscivano dal box la signora Luisa si volò e fece un occhiolino a Luca, il quale rispose con un pollice alzato ed un sorriso.

“Hai sentito?”, disse poi alla corda, “comportati bene sabato prossimo, che abbiamo un ospite”.

I nani

“Ragazzo! Ragazzo, vieni qui!”.

Il garzone accorse immediatamente.

“Eccomi. Ditemi”.

Il vecchio lo fissò intensamente, lisciandosi la barba bianca con la mano rugosa.

“E’ stato qui il signor Philippe. Mi ha chiesto di realizzargli un’opera. Una scultura lignea. Liberamente, secondo la mia ispirazione”.

“Maestro, è meraviglioso. Cosa pensate di fargli?”.

“Nulla”, rispose il vecchio, “gli ho detto che non ho tempo per dedicarmi all’arte. Ho dei mobili da finire, per non parlare dell’armadio della sagrestia. È troppo tempo che ci sto lavorando. Gli ho detto allora ‘Signore, lasciate che vi realizzi qualcosa il ragazzo. È giovane e quindi pieno di fantasia. Veglierò personalmente sulla realizzazione’”.

Il volto del garzone si illuminò.

Lo sguardo del falegname si fece ancora più duro e riprese:

“Il signor Philippe mi ha risposto di tutto punto ‘mio buon amico, se il ragazzo ha appreso anche solo la metà della vostra arte, non posso che essere felice. Avrò un’opera prima’”.

“Ma… quindi potrò?”.

Il giovane fino a quel momento aveva assistito il vecchio artigiano sgrossandogli i pezzi di legno e solo ultimamente aveva cominciato a ripassare qualche finitura.

Un’opera tutta sua, per il signor Philippe poi, il commerciante più ricco del villaggio, era un sogno che andava oltre ogni sua fantasia.

“Farai tutto da solo”, proseguì il vecchio, “comincerai procurandoti la legna. Io vigilerò sui tuoi progressi. Ti permetterò di usare tutti i miei attrezzi. Bada bene però a non far figure”.

E se ne tornò alla cassapanca che stava intagliando.

Il ragazzo era entusiasta.

Un lavoro tutto suo, un’opera poi, un’opera d’arte.

Era un sogno, un sogno che stava divenendo realtà.

Ma cosa fare?

La testa cominciò a riempirsi di idee, progetti, intuizioni.

Doveva però procurarsi anche la legna.

Non stava più nella pelle.

Si tolse gli zoccoli in legno e si infilò gli scarponi.

“Dove vai?”, chiese il vecchio.

“Vado a prendere la legna per il lavoro del signor Philippe”, rispose il ragazzo mentre metteva l’ascia nel sacco.

Il vecchio grugnì.

Sul ripido sentiero fangoso che saliva per la montagna il garzone continuava a pensare a mille e più sculture che avrebbe potuto realizzare.

Che albero scegliere poi?

Su questo non aveva dubbi: una betulla sarebbe stata magnifica.

Si diresse verso nord dove si trovavano i boschi di betulle, finché non cominciò ad intravederne i rossi cespugli.

Le betulle lo affascinavano.

Erano arbusti che nascevano rossi, come fossero ancora sporchi di sangue dopo essere stati partoriti dalla terra.

Poi la corteccia andava a formarsi e lentamente sbiancavano fino a divenire immacolati.

Il ragazzo vide ad un tratto un albero abbattuto dalla tempesta dei giorno precedenti.

Qualche colpo d’ascia e mise nel sacco alcuni pezzi di legno.

Tutto soddisfatto si riavviò verso la bottega.

Una volta giuntovi, mise i legni ad asciugare e rientrò a riprendere il suo lavoro.

Passate un paio di settimane recuperò i suoi legni.

Erano asciutti e pronti per essere lavorati.

Cominciò immediatamente ad intagliarli grossolanamente.

Aveva deciso di realizzare una grande porta-pipa da esposizione.

Sapeva che il signor Philippe amava fumare ed una pipa scolpita nella betulla sarebbe certamente stata di suo gradimento.

Il legno da intagliare è sempre duro, si batte col martello, si batte, si batte e sembra che non venga via nulla, poi, basta un colpo più deciso e salta via più del necessario.

Il problema con la pipa sarebbe stato realizzare il camino, ma ci avrebbe pensato sul momento.

“Ragazzo!”, gridò il falegname, “devi finire di preparare le tavole per la credenza del curato. Sbrigati, sono tre giorni che te lo dico. Dobbiamo consegnare tra tre settimane”.

Per due giorni il ragazzo non lavorò alla sua opera.

Quando la riprese in mano decise di intagliare ulteriormente il legno per ottenere una silhouette più fine.

Qualche colpetto ed il legno veniva via come niente.

“Che fortuna”, pensò, “si riesce a lavorare molto meglio. Devo aver tolto la parte più dura. Ora sarà un gioco da ragazzi”.

Guardò soddisfatto quanto fatto.

“Bene, molto bene. Proprio come la immaginavo. Peccato solo per questi piccoli buchini.

Continuò a scalpellare per un’ora quando all’improvviso notò qualcosa di strano.

Avvicinò il pezzo si legno al viso e strinse gli occhi per mettere meglio a fuoco.

“Ma cosa?”, disse ad alta voce, “no!”.

Un paio di formiche si trovavano sul legno.

Le soffiò via.

Poi osservò ancora.

Ne comparve un’altra.

Poi un’altra ancora.

“Ma da dove sbucano dannazione”.

Il ragazzo le soffiò via nuovamente ed ecco, l’illuminazione.

Andò a prendere la lente del vecchio e si mise ad osservare il legno.

Si soffermò sui minuscoli buchi che aveva notato poc’anzi.

Non poteva credere ai suoi occhi.

Gallerie.

Gallerie scavate nel legno.

Vide uscire altre formiche, ma in quel momento non provava più l’irritazione di poco prima.

Era, in un certo qual modo, affascinato.

Quei minuscoli esserini avevano realizzato delle gallerie in un ramo.

Quante potevano essere e quante formiche potevano ospitare?

E se tutte quelle si trovavano in un solo pezzo di ramo, chissà quante altre potevano essercene in un albero intero.

Quanti metri di tunnel o forse anche più?

Gallerie scavate morso dopo morso fin dentro il ventre del legno.

“Nani”, sussurrò il garzone, “i vecchi dicono che gli scoiattoli sono gli ultimi folletti. Nelle formiche forse alberga lo spirito dei nani”.

Meditò poi stupito sul fatto che in un pezzo di legno morto da tempo potesse ancora albergare così tanta vita”.

“Che stai combinando?”.

Il ragazzo sussultò.

“Ecco… il ramo… formiche”.

Il vecchio prese in mano il legno.

“Pieno di formiche. Bravo. Tutto da rifare. È pieno di buchi. Testone, non hai imparato nulla né? Andare a fare legna dopo la pioggia. Gli insetti cercano riparo e il legno è più morbido da mordere, così lavorano meglio”.

“E’ un lavoro incredibile”, sfuggì al garzone, che abbassò lo sguardo arrossendo.

“Vero”, ammise il vecchio.

Poi guardò il ragazzo.

“Sei tonto ma, per compensare, hai l’animo di un poeta. Prendi uno dei miei legni. Usa uno di quelli per il tuo lavoro. Vedi di muoverti che non puoi fare aspettare il tuo committente per degli anni”.

“Sì maestro”.

“E poi, andrai a prendere altra legna al posto che di quella che ti ho prestato”.

“Sì”.

“Prima però finisci il tuo lavoro. Stava venendo bene quella pipa. Una bella idea”, disse il falegname con un leggero sorriso sotto la folta barba.

Il garzone si illuminò e di corsa andò a recuperare un ciocco di radica.

Esercizi di stile

Ispirandosi ai famosi Esercizi di stile di Raymond Queneau, questa sera si propone la medesima storia scritta in due modi differenti.

La narrazione è di pura fantasia ed i riferimenti storici sono stati inseriti con l’unico scopo di servirla. Non v’è alcuna pretesa di veridicità, pertanto non me ne vogliano gli storici, di professione o dilettanti che siano.

I resti del pennuto

“Cosa vedi?”.

“Vedo… vedo…”.

Il veggente fissava intensamente il mucchietto di ossa che aveva dinanzi.

“Vedo… delle ossa”.

“Della ossa, sì, e cos’altro?”, lo incalzò il capo villaggio.

La fronte del veggente era imperlata di sudore, lo sguardo inequivocabilmente spaesato.

“Vedo delle ossa e…”, scosse leggermente il capo come per un tic, “altre ossa”.

“Vedi nient’altro?”.

“Ecco…”.

Il veggente chiuse gli occhi.

Respirò a fondo, cercando di calmarsi.

Tentò di pensare a qualcosa da dire, ma non gli veniva in mente nulla.

Lasciò correre liberamente i pensieri in cerca di ispirazione, ma questi tornavano sempre beffardi al giorno in cui tutto ebbe inizio.

Era seduto nella sala dei banchetti per dei festeggiamenti, non ricordava distintamente la ricorrenza, ma aveva bene in mente il peso che aveva sullo stomaco per tutto il mangiare e, sopratutto, il bere di quella giornata.

Ad un tratto avvertì un certo trambusto nella pancia.

“Ohi ohi”, gli scappò di dire ad alta voce, “è in arrivo una bella tempesta”.

I commensali accanto a lui lo fissarono accigliati.

“Ma che stai dicendo, non c’è una nuvola in cielo”, dissero, ignoranti del fatto che si stesse riferendo ai suoi prossimi fenomeni di meteorismo.

Ad ogni modo, il caso (o il fato) volle che il vento cambiasse direzione ed una tempesta si abbattesse, letteralmente, sul villaggio.

Da quel momento decisero che egli sarebbe stato il loro veggente.

Veniva consultato per i motivi più svariati e perlopiù inutili ed egli si era specializzato nelle risposte vaghe, talvolta finanche contraddittorie, ma utili a far sì che l’interlocutore traesse dai suoi sproloqui ciò che, alla fin fine, voleva sentirsi dire.

Ma quel giorno, dinanzi al fuoco e alle ossa, la questione era tremendamente seria.

Roma era sempre più vicina alle loro terre.

E le voci circolavano in fretta: l’esercito romano era ben organizzato e la sua brama di conquista risaputa.

Il capo del villaggio si era pertanto recato presso di lui insieme ai capi degli insediamenti limitrofi in cerca di consiglio.

Che fare, arrendersi nella speranza di essere lasciati in pace, pagando magari qualche dazio, oppure combattere per mantenere la propria libertà?

“Ebbene, veggente, vedi nient’altro?”.

“Vedo delle ossa e…”, aprì gli occhi e fissò nuovamente il mucchietto che aveva davanti, “altre ossa”.

“Ossa e altre ossa…”, sussurrò il capo villaggio meditabondo, “i resti di una battaglia! Quindi… stai dicendo che dobbiamo armarci contro gli invasori!”.

“No no, non lo dico io”, si affrettò a dire il veggente agitando le mani in segno di diniego, “lo dicono le ossa”.

“Sì ed è quello che pensavo anch’io”, disse il capo villaggio, “non possiamo indugiare. Dobbiamo combattere”.

Gli altri capi annuirono ed uno di essi interrogò ulteriormente il veggente.

“Veggente, dì, quando dovremo attaccare? Cosa dicono le ossa?”.

Il veggente deglutì ed abbassò nuovamente lo sguardo sui resti del pennuto che aveva bruciato poc’anzi.

Ad una cosa era servito quell’incontro, gli aveva dato il pretesto per far ammazzare quella dannata cornacchia che ogni mattina lo svegliava con i suoi starnazzi prima del sorgere del sole.

“Le ossa sono… bianche. Bianche come la… neve?”.

Il pensiero di una guerra lo rendeva irrequieto, quindi fece in modo di rinviarla il più possibile.

“Bisogna attendere l’inverno”, disse quindi col tono più solenne che potesse venirgli.

“Così a lungo?”, domandarono.

“Ecco… Roma è a sud. Fa… caldo laggiù. Non sono abituati al freddo. Raffreddori, malanni di stagione… non gli faranno di certo bene”.

“Sei sempre saggio, veggente”, disse il capo villaggio, “ti ringrazio per le tue parole. Le ossa cosa dicono sui modi? Quale strategia dovremo adottare?”.

“Uno sconto in capo aperto?”, chiese qualcuno.

Il veggente riprese a sudare.

Aveva il terribile timore che potessero infatti portarlo con loro in battaglia per interrogarlo e chiedere consiglio.

“Ecco, perché non… prenderla alla larga”, disse titubante e senza osare alzare lo sguardo.


“Alla larga”, ripeté qualcuno, “coglierli alle spalle, certo! Da dove meno se lo aspettano. Le loro truppe partiranno da Mediolanum e si accamperanno vicino al lago. Noi valicheremo il passo del Vecchio Monte e gli arriveremo alle spalle, tagliandogli così anche la via di fuga verso la città ed, allo stesso tempo, impedendo che possano ricevere rifornimenti”.

“E’ deciso!”, disse il capo villaggio alzandosi, “nei prossimi mesi elaboreremo insieme il piano. Veggente, le tue parole sono sempre di ispirazione”.

Il veggente scosse il capo fingendo noncuranza ed avvicinò le mani verso le braci.

Passata l’emozione, tutto sudato, cominciava ad avere un po’ freddino.

“Un’ultima domanda. Che raccolto avremo quest’anno?”.

Il veggente strabuzzò gli occhi.

C’era poco da disquisire, o buono o cattivo, cinquanta e cinquanta.

Fissò le ossa con gli occhi spalancati.

“Ecco… ecco sì, eh… vedo…”.

Attraverso le ossa

“Cosa vedi?”.

“Vedo…”.

Il veggente teneva la mano distesa sopra il mucchietto di ossa che aveva dinanzi.

“Vedo delle ossa”.

Il capo villaggio si sporse in avanti verso di lui.

“Vedi altro?”, lo interrogò.

La fronte del veggente era imperlata di sudore.

Immobile, era tuttavia impegnato in uno sforzo notevole.

Lo guardo era lontano, verso luoghi ove a pochi era concesso inoltrarsi.

“Vedo delle ossa ed altre ossa”.

“Nient’altro?”.

Il veggente chiuse gli occhi.

Respirò a fondo e lasciò correre i pensieri.

Essi viaggiarono lungo le trame della realtà, avanti e indietro, avanti e indietro.

Andare avanti era sempre più difficile, riusciva a percepire solamente delle piccole tracce, come degli indizi, poi i pensieri ritornavano nel presente, ma per inerzia finivano sempre per scivolare indietro.

E, in tal modo, rivedeva momenti che erano già stati.

Quella volta tornò al giorno in cui tutto ebbe inizio.

Era seduto nella sala dei banchetti per dei festeggiamenti, non ricordava distintamente la ricorrenza, ma aveva bene in mente la sensazione che all’improvviso lo aveva colto, proprio alla bocca dello stomaco.

“È in arrivo una tempesta”, disse.

I commensali accanto a lui lo fissarono accigliati.

“Non c’è una nuvola in cielo”.

Egli ricambiò lo sguardo.

“Tuttavia, è in arrivo”.

Poco dopo il vento cambiò di direzione ed una tempesta si abbatté sul villaggio.

Da quel momento compresero che egli possedeva il dono di interrogare il fato.

In molti si recavano da lui, in cerca di consiglio e di risposte.

Quel giorno, tuttavia, aveva percepito un’atmosfera grave nell’aria.

Da qualche tempo la minaccia di Roma si era fatta più vicina, come l’ombra che lentamente, ma incessantemente, avanza al calare del giorno.

Il capo del suo villaggio, e quelli degli insediamenti limitrofi, erano da lui convenuti in cerca di consiglio.

Lo interrogavano sul futuro: combattere gli invasori o arrendersi, come molti avevano già fatto?

“Ebbene, veggente, vedi nient’altro?”.

Il veggente aprì gli occhi sulle ossa che aveva dinanzi. Esse erano disposte in modi che, a coloro i quali era concesso riconoscerli, narravano storie, fornivano indizi.

“Vedo delle ossa e…”, si concentrò sul mucchietto che aveva davanti, “altre ossa sopra di esse”.

“Ossa su altre ossa…”, sussurrò il capo villaggio meditabondo, “i resti di una battaglia!”.

Il veggente annuì col capo.

“Dobbiamo dunque armarci e prepararci a combattere”.

“È ciò che dicono le ossa”.

Gli altri capi si dissero d’accordo ed uno di essi interrogò nuovamente il veggente.

“Veggente, dì, quando dovremmo dare battaglia? Cosa dicono le ossa?”.

Il veggente abbassò lo sguardo sui resti del corvo che aveva bruciato poc’anzi.

Lo aveva trovato morto fuori dalla sua tenda e lo aveva interpretato come un segno.

I corvi erano i messaggeri di Wotan, o Odino, come lo chiamavano le genti del Nord.

E, attraverso i suoi resti, avrebbe interrogato il fato.

Le ossa bruciate erano bianche, di un candore che gli ricordava una coltre di neve.

“Si dovrà attendere l’inverno”, disse.

“Così a lungo?”, domandarono.

Il veggente annuì.

“Roma è forte della propria cavalleria, ma la neve sarà di ostacolo a carri e cavalieri e questo verrà a nostro vantaggio. Inoltre i soldati dovranno indossare pesanti pellicce per scaldarsi e questo renderà più difficoltosi e meno agili i loro movimenti. Faranno quindi più fatica nel maneggiare le armi. I nostri uomini, invece, sono abituati a cacciare col freddo. E questo verrà a nostro vantaggio”.

“Sei sempre saggio, veggente”, disse il capo villaggio, “ti ringrazio per le tue parole. Le ossa cosa dicono sui modi? Quale strategia dovremo adottare?”.

“Uno scontro in campo aperto?”, chiese qualcuno.

Il veggente non scrutò le ossa, non ne aveva più bisogno.

“Dovremo portare la battaglia lontano dai villaggi, per tenere al sicuro donne e bambini. La neve può esserci di aiuto, ma anche di ostacolo. Sulla neve le tracce sono facili da seguire, sopratutto quelle di molti uomini quali saremo. Seguendole troverebbero facilmente i nostri accampamenti. No, dovremo raggiungerli da lontano”.

“Da lontano”, ripeté qualcuno, “coglierli alle spalle, certo! Da dove meno se lo aspettano. Le loro truppe partiranno da Mediolanum e si accamperanno vicino al lago. Noi valicheremo il passo del Vecchio Monte e gli arriveremo alle spalle, tagliandogli anche la via di fuga verso la città ed impedendo che ricevano rifornimenti”.

“E’ deciso!”, disse il capo villaggio alzandosi, “nei prossimi mesi elaboreremo insieme il piano. Veggente, le tue parole sono sempre di ispirazione”.

Il veggente fece un lieve inchino col capo e si avvolse nelle pelli.

“Un’ultima domanda. Che raccolto avremo quest’anno?”.

Il veggente allungò la mano sulle ossa, chiuse gli occhi e lasciò che i pensieri vagassero nuovamente lungo le trame del reale.

Avanti e indietro, avanti e indietro.

E, attraverso le ossa, intravide indizi dal tempo che ancora doveva venire.

“Vedo…”.

Il teschio (foto di P.)

Il quinto cadavere

“Avrà usato questo spago”, disse mostrando il pezzo di filo al fedele compare.

“Penso proprio di sì”, rispose l’altro.

“Che fine orribile”, riprese fissando la figura senza vita appesa allo stendino.

“Lo prenderemo quel criminale. Solo che ogni volta è un passettino davanti a noi”.

“Già, è veramente in gamba”.

“Come avrà fatto ad appenderlo in quel modo?”.

“Non ne ho idea”.

“Lo spago deve averlo tagliato con queste forbici. Le porto via per analizzarle, magari ci saranno delle impronte digitali”.


“Non ci saranno, esattamente come le altre volte. Però sì, conviene ugualmente tentare. Chi lo sa magari per una volta saremo fortunati”.

“A quanti siamo arrivati?”.


“Con questo sono cinque”.

“Cinque morti. E questa così plateale. Si sta prendendo gioco di noi”.

“Non ancora per molto. Prima o poi commetterà un errore e sarà nostro. Tu continua a sorvegliare verso est. La scia di vittime si sta spostando verso il porto”.

“ E tu che farai?”.


“Andrò nuovamente a mettere sotto torchio quello del bar. Sono convinto che ci sta nascondendo qualcosa. Non abbiamo più tempo da perdere. Gli farò sputare tutto quello che sa”.

“D’accordo. Sicuro che non vuoi che venga con te Batman?”.

“Sì Robin. Ci rivediamo alla Batcaverna”.

“Luca, Davide!”.

“Sì mamma?”.

“Vostra sorella ha detto che le avete ancora rubato il suo orsetto. Riportateglielo immediatamente o niente merenda”.

Luca si affrettò a recuperare l’orso che ancora penzolava dallo stendino e si avviò di buona lena verso la cucina, ma non prima di essersi avvolto nel suo oscuro mantello, la vecchia tovaglia blu.

The Batman, sketch di P.

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In occasione dell’uscita delle sale del “The Batman” di Matt Reeves, la Tana ha voluto così contribuire ad omaggiare uno dei più grandi eroi della storia dei fumetti.

Uno dei più grandi ed uno dei più vicini.

(Tendenzialmente) soldi a parte, Batman è uno dei personaggi con cui è più facile empatizzare, perché, in fondo in fondo, è un po’ come tutti noi.

Tormentato, dubbioso e, il più delle volte, decisamente incazzato.

Nonostante la sua unica regola si erga come uno scoglio, Batman sguazza in un mare di scale di grigi, nel quale non può far altro che confrontarsi continuamente con le innumerevoli implicazioni del fare la cosa giusta.

Ma ritornando alla breve storia presentatavi stasera, si precisa che non si tratta di uno scritto realizzato appositamente per l’occasione, ma è tratto da una raccolta di racconti scritta a quattro mani nell’autunno 2020, il cui titolo rimanda ai difficili giorni che tutti noi difficilmente dimenticheremo.

Avremo modo di parlare dei Binomi fantastici dalla zona rossa, in stampa nei prossimi giorni, nelle settimane a venire.

I giganti

Il piccolo Simone osservava perplesso la catasta di legno che aveva di fronte.


“Non ci credo”, disse.

“Ma sì, Simone, non vedi che forma che ha?”.

“Papà finiscila, non esistono i giganti!”.

“E di chi è allora quella pipa?”.

“Papà, non è una pipa, è il tronco di un albero!’.

“Ma Simone, guarda la forma, come può non essere una pipa?”.

Simone fissò nuovamente la catasta di legno che aveva dinanzi.

Erano tronchi tagliati di recente nel bosco.

Erano tutti perfettamente dritti, salvo uno, il tronco del contendere, la cui forma curvava in prossimità delle radici, che però erano state tagliate.

Il risultato, a suo modo, richiamava la forma di una pipa, un’enorme pipa in effetti.

“Dove lo mettono il tabacco?”, chiese il piccolo Simone.


“Come? In che senso?”, domandò il padre.

“Il tabacco per fumare la pipa. Il nonno per fumare usa il tabacco. Che mette nel camino della pipa. Quel tronco è pieno, il camino non ce l’ha!”.

Il padre di Simone, spiazzato, decise di giocare un’ultima carta.

“E come fa ad essere così curvo allora? Deve per forza averla intagliata qualcuno”.

“ Papà, e meno male che sei botanico. La natura ha fatto tutto. Le piante hanno bisogno di luce per vivere e crescere. Ma nel bosco c’è molta competizione. Le piante più grandi oscurano quelle più piccole. Allora quelle più piccole devono farsi strada.

Alcune quindi, come quella lì davanti , anziché crescere dritta ha dovuto prima spostarsi in avanti e poi risalire per riuscire così ad essere raggiunta dai raggi del sole. E’ la forza della vita, ripeti di continuo, trova sempre il modo di andare avanti”.

Il padre del piccolo Simone non poté che dargli ragione.

Dopotutto erano parole sue.

“Simone, forza, scendiamo che comincia a fare buio. Forza”.

Padre e figlio si avviarono a valle di buon passo.

Avevano camminato a lungo quel giorno.

Il piccolo Simone era molto soddisfatto per la sua prima cima, mentre il padre era molto orgoglioso per il piccolo che era salito senza mai lamentarsi.

Il sole si abbassava e loro scendevano, lasciandosi alle spalle il silenzio delle montagne.

Loro scendevano, mentre il sole calava ed il silenzio si faceva strada tra le vie dei paesi a valle.

Fu quando il silenzio ebbe vinto ogni casa che si risvegliarono le montagne.

“Buonasera”, disse il pizzo al monte poco più in basso.

“Buonasera”’, rispose il monte, “avete riposato bene?”.

“Discretamente, la ringrazio e spero lo stesso per lei. Nonostante debba lamentare di un certo formicolio, dovuto ad un paio di umani che si sono inerpicati sulla mia schiena fino ad arrivare in testa.

“Che cosa deprecabile”, disse il monte.

“Trovate?”, riprese il pizzo, “lo penso anch’io, cionondimeno concedo un certo ardimento al piccolo umano. Era davvero molto tempo che non percepivo dei passi sì tenui. Ad ogni modo, ora ho proprio il desiderio di rilassarmi un poco. Ditemi, avete per caso veduto la mia pipa? Sono un paio di giorni che non la trovo”.

La pipa, foto di P.

Il libro per adulti

“Vergognoso. Licenzioso. Al limite dell’indecenza”.

L’editore seguitava a scuorere il capo mentre sfogliava le pagine del faldone che aveva dinanzi, poggiato sulla scrivania.

Voltava le pagine prendendo i fogli tra i polpastrelli di pollice ed indice, tenendoli a distanza come fossero infetti, un’espressione di disgusto in viso.

“Ma come si è permesso?”, domandò al giovane seduto dall’altra parte della scrivania, “e sì che il suo curriculum pareva quello di una persona istruita. Come ha potuto, anzi, come le è venuto in mente di scrivere una porcheria del genere?”.

Il giovane teneva lo sguardo basso, senza rispondere.

“Quando si era presentato nel mio ufficio per espormi la sua idea”, proseguì l’editore, “mi era sembrata interessante e potenzialmente inseribile in una fetta di mercato già consolidata. Ma poi se n’è uscito con questo libro per adulti. Un libro per adulti! Nella mia casa editrice di cui serbo l’orgoglio di non aver mai e poi mai e, ribadisco, mai! pubblicato qualcosa di anche solo vagamente licenzioso!”.

Il giovane continuava a tenere lo sguardo basso, mentre l’editore, lentamente e con disprezzo, voltava le pagine dello scritto.

“E questi disegni poi!”, proseguì, ” questi disegni! Sono così realistici! Non poteva, almeno le immagini, almeno quelle, lasciarle abbozzate, un pò più vaghe. Guardi, guardi questa! Si vede tutto. Tutto!”.

Il giovane alzò timidamente lo sguardo ed osservò prima l’immagine, poi il volto sdegnato dell’editore.

“Pensavo di fare una cosa buona”, sussurro’, “non ci sono libri del genere in circolazione. Insomma, se un ragazzo volesse scoprire come…”.

“Se un ragazzo volesse… se un ragazzo… oh perbacco! Un ragazzo che volesse scoprire queste cose dovrebbe essere tempestivamente e fermamente dissuaso! Non si può permettere che un giovane con tutta una vita davanti indulga su simili fantasie”.

“Ma… io l’ho fatto”, intervenne il giovane, “e…”.

“E il risultato è sotto gli occhi di tutti!”, tuonò l’editore, ” anzi no, fortunatamente non di tutti. Perchè ci sarò io ad impedirlo! Questo lavoro non verrà pubblicato, di certo non dalla Forster & Forrester e figli. Prego!”.

E, con un gesto imperioso della mano in direzione della porta, invitò il giovane ad uscire.

“Grazie per il suo tempo”, disse questi una volta raggiunta la soglia, “arrivederci”.

“Forse”, rispose l’editore senza alzare lo sguardo.

Uscito dalla casa editrice, la prestigiosissima Forster & Forrester e figli, il giovane James ritrovò il suo amico Thomas che si era reso disponibile ad accompagnarlo e lo aveva anche cortesemente aspettato.

“Allora?”, domandò Thomas, “com’è andata?”.

James scosse il capo, affranto.

“Niente, neppure con questa”, rispose, “l’editore è stato categorico. Non si pubblica materiale così licenzionso nella sua rispettabilissima casa editrice”.

“Licenzioso…”, mormosò Thomas tra sè e sè, “questa è nuova. Aspetta che me la segno”.

E, così facendo, finse di estrarre di tasca un taccuino e di scarabocchiarvi sopra delle note.

“Dài sto scherzando”, disse dopo aver visto il volto dell’amico farsi sempre più funereo, “licenzioso. Con tutte le schifezze che vengono pubblicate, il tuo almeno è realistico, è basato su prove e dati”.

“Non importa, resta pur sempre un libro per adulti. E i ragazzi non devono indugiare su simili fantasie”.

“Sì, ho capito. Ma se un ragazzo fosse realmente interessato e volesse approfondire l’argomento, quali altri strumenti avrebbe a disposizione? Su, forza, dimmelo. E non parlo dei vostri testi universitari, eccessivamente pomposi e complicati, ma di qualcosa che sia più alla loro portata”.

James scosse il capo.

“Thomas, finiscila per favore che è già sufficientemente difficile. E poi, ripeto, l’editore è stato categorico: non si pubblicano libri sui dinosauri per adulti. Stop, fine della questione. Se voglio avere una possibilità di vedermi pubblicato qualcosa, devo rassegnarmi a scrivere il solito, ridicolo, libricino per bambini, coi dinosauiri rotondetti e sempre sorridenti. Come possano poi sorridere nella stessa vignetta, uno accanto all’altro, un T-rex ed un triceratopo rimane un mistero. Quello sì che è al limite dell’indecenza. Triceratopo che poi altri non è che il pasto del Tirannosauro. Sarebbe come disegnare un pollo che sorride mentre sta per essere spennato ed infilzato sopra uno spiedo”.

“Mi spiace, conta poco, ma ti capisco”, continuo’ Thomas, “ma anche te, però, fammi capire, non voglio girare il dito nella piaga, ma… non potevi andare a studiare… sociologia?! No, perchè proprio i dinosauri? A che cavolo serve studiare i dinosauri?”.

“Perchè i dinosauri…”, rispose James e, mentre lo diceva, un sorriso fece capolino sotto la folta barba, “perchè i dinosauri sono una figata pazzesca!”.

Lo stegosauro, di Giulia Colombo

Metanoia

Gli occhi cominciarono nuovamente a bruciare.

Da quanto tempo stava salendo?

Li chiuse per qualche istante e li sentì lacrimare.

Respirò a pieni polmoni, lasciando che le lacrime solcassero le guance, dopodiché strabuzzò gli occhi, li riaprì e rimise a fuoco.

Erano immersi in una candida distesa di neve e ghiaccio.

Il riverbero del sole li accecava.

Ciononostante, un passo dopo l’altro, continuavano a salire.

Un passo dopo l’altro, mentre i respiri li inseguivano.

Da quanto stavano salendo?

Ebbe la tentazione di controllare l’orologio, ma poi resistette.

Ne avevano ancora da fare e controllare l’ora sarebbe stato inutile, anzi, addirittura controproducente.

Doveva salire, non importava quanto tempo ancora avrebbe richiesto.

Non poteva rimanere indietro.

Non dopo tutto quello che aveva fatto per prepararsi.

Non era mai salito così in alto.

Faceva freddo.

Ma lui si era preparato.

Si era abituato al freddo.

Bonatti bivaccava di notte sul terrazzino ed anche lui aveva fatto lo stesso.

Il freddo.

Il freddo aveva imparato a conoscerlo bene.

The Dark Side Of The Moon.

Ecco cosa gli ricordavano.

Come da un prisma la luce usciva scomposta in tutte le sue componenti spettrali, dalla pista immacolata scendevano decine di tute colorate.

Le osservava mentre si trovava sulle piste da sci, per abituarsi al freddo.

Stava studiando il ghiaccio e la neve.

Doveva conoscerli bene per essere pronto per il progetto che stava preparando.

Neve e ghiaccio, le materie evanescenti.

Scalare su ghiaccio era come nuotare.

Di fatto ci si muoveva su molecole d’acqua.

Due atomi di idrogeno, uno di ossigeno.

Legati su di una distesa che a tratti pareva infinita.

Mari solidi.

Che stana la montagna.

Pensò alla forma del mondo come descritto nella Bibbia: acqua e terra.

Le acque e la terra che le divideva.

Le acque di sotto e quelle di sopra.

Era così inverosimile?

Il mare, poi la terra, poi, salendo sulle montagne, fossili di animali marini ed infine i ghiacciai, quindi ancora acqua.

L’acqua che evapora si condensa e cade nuovamente depositandosi in cima alle montagne.

Riaprì gli occhi e vide cadere la neve.

Pensò a tutti quei piccoli cristalli.

Così simili, ma così diversi.

Aveva letto che dei ricercatori giapponesi ne avevano catalogati oltre tremila esemplari differenti.

Dava di che riflettere.

Ogni fiocco di neve, oltre ad essere differente nella dimensione, lo era anche nella forma.

Quella distesa bianca, che gli pareva tutta uguale, era composta da una moltitudine di forme differenti.

Ogni fiocco che gli cadeva addosso poteva essere diverso dal precedente.

Assecondava i pensieri, per non dar peso alla fatica.

Cristalli.

La parola stessa aveva qualcosa di poetico.

Rimandava a qualcosa di prezioso, qualcosa da custodire gelosamente.

Ed in effetti era così, si trovò a riflettere.

I cristalli erano composti di acqua, fonte di vita.

L’acqua era alla base della neve, l’origine di quel candore, di quell’incanto.

Pensò agli atomi come note musicali.

Così come sette note potevano dare origine ad una ballata, ad un’opera, ad un brano metal, così i tre atomi che compongono l’acqua potevano originare un placido ruscello, l’impeto di una cascata, la delicatezza di una stalattite, la potenza di una valanga.

Scalare sul ghiaccio era davvero un po’ come andare per mare.

Le picozze erano i suoi remi.

Si fermò nuovamente.

Cominciava ad essere veramente esausto, ma quel concatenamento era troppo importante per lui, ci aveva investito troppo tempo ed energie.

Non poteva mollare.

Cercò di recuperare e riannodare tra loro i pensieri.

Doveva tenerli legati a sé, perché pensare lo aiutava a non sentire troppo la fatica.

Tenerli legati, legami, legami covalenti, l’acqua, ecco sì, li aveva ritrovati.

Acqua, ghiaccio e ancora acqua.

I ghiacciai come oceani, lui come marinaio.

Era ancora giovane, ma in quel momento si sentiva come il vecchio descritto ne “Il vecchio e il mare”, impegnato in una sfida impari.

Lui che si misurava con la montagna.

O meglio, lui che si misurava con la sua forza di volontà.

Era sufficientemente forte?

Poteva scoprirlo solamente andando avanti.

Ripensò al mare.

Alla fine poco cambiava dalla montagna.

Nelle rocce si trovavano i resti di animali marini.

Le rocce stesse erano state sul fondo del mare.

Era forse quindi solamente questione di prospettiva.

O di sensibilità.

Ecco, forse era quello.

In fondo lui era un esploratore.

Alpinista, navigatore, quelli erano solamente titoli, che servivano alla gente per poter catalogare le cose nella giusta categoria.

Alpinista va con montagna.

Navigatore va con mare.

Esploratore, invece, suona sempre troppo vago.

Aveva scelto la montagna perché gli offriva molta più varietà rispetto a quello che poteva offrirgli l’oceano.

Ciò che desiderava era vedere luoghi, voleva riempirsi gli occhi di bellezza.

Fare il pieno di bellezza era qualcosa di estremamente importante per lui.

Cercare la bellezza per sfuggire alla monotonia nella quale il quotidiano cerca sempre di intrappolarti.

Costava fatica, certo, stare fermo era decisamente più semplice e comodo.

Ma lo stare fermo uccide lentamente.

C’erano tanti modi di stare fermo.

Quello fisico, certo, ma anche quello della mente.

Una mente senza sogni, priva di desideri, era una mente morta.

Sognare una cima, invece, desiderare di raggiungerla, era qualcosa in grado di smuovere dal torpore.

Ripensò a tutti gli articoli che aveva letto nei quali si sosteneva che l’importante era il modo in cui si saliva, piuttosto che il raggiungere una cima.

Era tendenzialmente d’accordo, tuttavia non era del tutto convinto.

Raggiungere una cima per lui era importante.

Significava raggiungere un obiettivo, portare a termine qualcosa.

In un mondo in cui sempre più spesso non si vedono i frutti del proprio lavoro, è importante trovare un fine da qualche parte.

Gli occhi ripresero a lacrimare, stavolta con più insistenza.

Li richiuse e si passò le mani sugli occhi per asciugarli.

Doveva fermarsi a riposare un momento, non riusciva a vedere più nulla.

Abbassò lo sguardo, si sforzò di leggere le cifre e fece un rapido calcolo.

Sì, doveva fermarsi a riposare.

Stava scalando ininterrottamente da quattrocento pagine, doveva prendersi una pausa.

Chiuse il libro e spinse un po’ indietro la sedia a rotelle.

Guardò la scrivania.

Era stracolma di libri, cartine, schizzi di montagne e di vie.

Aveva pianificato con cura quel viaggio.

Un concatenamento perfetto, accompagnato dai più grandi scalatori della storia.

Una dietro l’altra, Grandes Jorasses con Cassin, Cervino con Bonatti, Cima Grande con Comici, per poi volare in Karakorum sul Gasherbrum IV di nuovo con Bonatti e per concludere con l’Everest.

Da quando aveva iniziato aveva scalato con i migliori ed era loro grato perché avevano accettato di portarlo con loro.

Avevano riversato le loro emozioni su carta e quelle parole erano diventate la corda che li univa.

Una corda nera d’inchiostro.

Grazie alle loro parole, alla loro sensibilità, era stato in grado di provare le vertigini, di percepire il freddo, provare la stanchezza, la spossatezza, assaporare la gioia e la paura.

Ma l’immaginazione da sola non gli bastava.

Dopo qualche lettura aveva capito che doveva in qualche modo fare la sua parte.

Glielo doveva, per tutte le emozioni che gli avevano donato.

Decise che avrebbe sperimentato lui stesso il freddo, la vertigine, la fatica.

Ripensò alle notti passate sul balcone di casa, immobile, con indosso pile, piumini e coperte.

Gli tornarono alla mente i chilometri macinati sulle ciclabili del suo paese mentre, spingendosi, le mani si facevano più forti e callose.

Aveva sperimentato tutto questo per rendere ancora più reale quello che viveva nella sua mente, grazie alle pagine dei suoi libri.

Quella salita sarebbe stato probabilmente il suo ultimo grande progetto, il suo canto del cigno.

Non rimanevano più grandi scalate, perché gli alpinisti non scrivevano più come un tempo.

Non aveva nulla contro la moderna arrampicata, l’unico problema è che non lo faceva sognare.

Aveva provato ad immedesimarsi, ma il problema era che quelle relazioni parevano dei cifrari, dei messaggi in codice.

6b, 4c, 5c-, 7a-, 8b+.

Sembrava di giocare a battaglia navale.

5a, colpito.

6c, colpito e affondato.

Parlavano di linee, tutte incredibilmente eleganti, certo, ma alla fine vivevano in un mondo tristemente euclideo, in cui dovevano unire dei punti.

Nelle linee più dure si parlava inoltre di passaggi obbligati.

Obbligati?

Era salito in montagna per sfuggire ad una quotidianità intrisa di obblighi e doveva ritrovarseli pure lì?

No grazie, le sue montagne, il suo mondo, era permeato di poesia.

Dov’erano finiti il sudore, l’adrenalina, i cuori che battevano incontrollati?

Che fine avevano fatto le aurore, che tingevano il mondo d’incanto e scaldavano i cuori e le membra?

Che fine avevano fatto i tramonti, le notti passate ad osservare le stelle mentre, tremanti, ci si stringeva nel sacco da bivacco?

Chi li aveva rubati?

O erano fuggiti?

Si erano esiliati, in attesa di qualcuno che si dimostrasse degno di loro?

Dov’era la paura?

Dov’erano quelle emozioni che solo una vera avventura poteva regalare?

Riprese a leggere, riprese a salire.

Pagina dopo pagina, aumentava il dislivello.

C’era quasi, poteva vedere la cima nella sua mente.

Pochissime centinaia di metri.

Solo pochissime centinaia di metri, poi avrebbe coronato il suo sogno.

Il progetto sarebbe stato chiuso.

Chiuso.

Si fermò nuovamente.

Era quello che voleva?

Chiudere quel progetto, certo, ma l’avventura?

Voleva veramente che finisse?

Rimase immobile per qualche secondo.
Voleva veramente che l’avventura finisse?

Esitò ancora per qualche istante.

Infine, tolse il segnalibro e chiuse il libro.

Avventura

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Questa storia partecipa al Blogger Contest 2021

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