Il cerbiatto

Il vecchio si allacciò con cura i pesanti scarponi.

Con un sospiro, si alzò, raccolse lo zaino rattoppato e lo appoggiò vicino alla porta di casa.

Tornò poi sui suoi passi, andò in camera e, da un armadio, recuperò il fucile.

Lo avvolse con cura dentro ad un vecchia coperta marrone e tornò verso l’uscio di casa.

Infilò il fucile nello zaino ed uscì.

Parcheggiò l’auto in prossimità del bosco.

Si mise il sacco in spalla e si incamminò seguendo una flebile traccia tra gli alberi.

Era un vecchio sentiero che conosceva da anni e che gli garantiva un lungo giro nel bosco, dandogli modo di cacciare un po’ di tutto: conigli, cervi, uccelli.

Cacciava da che aveva memoria.

Suo padre gli aveva messo in mano un fucile prima ancora di una matita.

Da quel giorno erano ormai passati parecchi anni, ma cacciare era ancora la cosa che sapeva fare meglio.

Era sempre stato un bracconiere, un cacciatore di frodo, stando alle definizioni dei giuristi.

Tutte stronzate.

Di tutti quelli che avevano la licenza per fare i cacciatori non ve n’era uno degno di quel nome.

Compravano una licenza e si assicuravano il diritto di uccidere.

Ipocriti.

Lui cacciava da sempre, ma da sempre lo faceva per necessità.

Quando era giovane al suo paese c’era molta povertà e la caccia era ancora un mezzo necessario per la sussistenza.

Cacciava per sé, per la sua famiglia e per chi ne aveva bisogno.

In cambio ci si dava quel che si aveva: un po’ di legna per il camino, un fiaschetto di vino, un paio di zoccoli.

C’era dignità anche in mezzo a tanta povertà.

Nulla si prendeva per nulla.

Si faticava, si restava nella foresta per giorni, al freddo, sotto la pioggia, finché non si catturava qualcosa da riportare al paese.

Tutti i cittadini che venivano a frotte durante la stagione di caccia, di quella realtà non sapevano nulla.

Scendevano dalle loro jeep luccicanti con fucili dotati di mirini con automatismi tali per cui, ancora un poco, avrebbero sparato per conto loro.

I vari Enti avevano dovuto stilare regolamenti perché di caccia perché quegli ignoranti non ne capivano nulla.

Il vecchio continuava a pensare ed a brontolare tra sé mentre si addentrava sempre più nel fitto del bosco.

Camminava lentamente, con passo leggero e pensante, usava dire, perché bisogna sempre pensare a dove mettere i piedi.

Per non fare rumore.

Per non inciampare.

Per non cadere.

Quando era giovane molte volte si era arrampicato sulle crode per andare a caccia di camosci.

Su quelle rocce verticali, se sbagliavi a mettere un piede, significava fare un volo nel vuoto per decine, in alcuni casi, centinaia di metri.

Ora che era vecchio non si avventurava più così in alto.

Ogni tanto risaliva qualche canalone, giusto per recuperare le corna di qualche camoscio che vi era precipitato, ma nulla di troppo pericoloso, almeno per la sua esperienza.

Ad un tratto si fermò.

Pigolante sotto un ramo c’era un bel tordo che cercava vermicelli tra le foglie umide.

Il vecchio appoggiò lo zaino, si mise silenziosamente in ginocchio, prese il fucile e lo puntò verso il volatile.

Respirava lentamente per controllare il battito.

Le braccia erano ferme, non un tremito, a dispetto dell’età.

Qualche secondo e premette il grilletto.

Poco dopo stava nuovamente camminando seguendo le tracce del passaggio dei cervi e ripensava ad alcune vecchie e ricche battute di caccia.

Meditava sul fatto che amava l’odore della polvere da sparo emanata dalla canna del fucile dopo un bel colpo.

L’assaporava come si gustava il tabacco da pipa.

Era una sorta di rituale.

In chiesa i preti incensavano le statue dei santi e i crocefissi.

Nel bosco, in tal modo, lui incensava l’animale abbattuto.

Aveva rispetto.

Era un predatore, ma non era uno stronzo.

Era parte della natura.

Il lupo non chiedeva scusa al coniglio dopo averlo azzannato.

Poteva piacere o meno, ma questa era la realtà delle cose.

Stava camminando da qualche ora, immerso sempre nei suoi ricordi e nei suoi pensieri quando udì un rumore.

Per istinto si mise immediatamente in ginocchio dietro ad un albero e prese il fucile.

Rimase immobile per circa un minuto finché non udì un altro suono, un ramo spezzato.

Puntò il fucile verso i cespugli da cui aveva sentito provenire il rumore e, attraverso il mirino, si mise a scrutare il sottobosco.

Poco dopo lo vide.

Un cerbiatto.

Era un giovane esemplare che, placidamente, mangiava le bacche dai cespugli.

Continuava a fissarlo attraverso il mirino.

L’animale non lo aveva visto ne sentito.

Non poteva percepire neppure il suo odore poiché il vecchio si trovava sottovento rispetto alla sua posizione.

Il tiro era facile.

Un colpo semplice ed un buon bottino.

Ma non sparava ai cerbiatti.

Più in generale, non sparava ai cuccioli.

Era una legge da non infrangere, mai, perché uccidere un cucciolo significava estirpare il futuro, togliere una generazione alla natura.

E la natura era fatta per andare avanti, una generazione dopo l’altra.

Sparava agli esemplari vecchi o agli adulti che ormai avevano già avuto modo di riprodursi.

Ma questa regola non era seguita da tutti.

Alcuni di quei sedicenti cacciatori della domenica se ne infischiavano, proprio perché erano incapaci.

E, nella loro incapacità, approfittavano dell’inesperienza dei cuccioli che si lasciavano predare più facilmente.

Ma dovevano stare attenti.

I bracconieri avevano un loro codice morale.

Se sparavi ad un cucciolo e magari eri così stupido da vantartene, ti venivano a cercare.

Si sedette un momento con la schiena contro il tronco dell’albero e pulì un poco la canna del fucile. Per quanto vecchio, era perfettamente in ordine e pulito.

Doveva essere così.

Sempre.

Un fucile sporco era un fucile non funzionante a regime.

Lo aveva imparato a proprie spese e nella maniera più brutale possibile, una di quelle lezioni che solo la natura era in grado di impartire.

Era impegnato in una delle sue prime battute di caccia in solitaria.

Si era spinto troppo nel folto del bosco finché si era imbattuto nel cucciolo di un orso.

Non aveva fatto in tempo a rendersi conto del guaio in cui si era cacciato quando vide la madre caricarlo furiosamente.

Premette il grilletto del fucile, ma il tamburo si era inceppato a causa dello sporco e del fango che si era accumulato.

Senza pensarci due volte si era buttato giù in un canale scavato dall’acqua, ruzzolando per decine di metri per poi rialzarsi tutto ammaccato e riprendere a correre il più velocemente possibile.

Era stata una mossa estremamente avventata, ma una volta aveva avuto modo di assistere al recupero del corpo di un uomo ucciso da un orso ed avrebbe preferito morire finendo in un burrone piuttosto che dilaniato dalla fauci di quell’animale.

Una lieve brezza fece ridestare il vecchio dai suoi pensieri. Rimase ancora qualche istante a fissare il cerbiatto.

Vedere quella creatura immersa tra il fogliame gli trasmise un senso quasi di tenerezza.

“Stai diventando vecchio”, si disse, “un tempo lo avresti lasciato vivere semplicemente perché è una legge di natura. Ora sei qui ad intenerirti. Bah. Alzati va e vedi di prendere ancora qualcosa”.

Il sole cominciava a tramontare.

Aveva ancora poche ore di luce e sapeva dove recarsi per un colpo sicuro.

In breve raggiunse il crinale sopra la casa del giovane Lucas.

Non ci aveva mai parlato insieme, raramente parlava con qualcuno, ma quel ragazzo gli stava simpatico.

Uno che abbandona una promettente carriera da rocciatore per rintanarsi nei boschi meritava il suo rispetto.

Ed ormai erano tre anni che viveva lì, quindi non era semplicemente uno di quei cittadini che annunciano di ritirarsi tra i monti, se ne stanno in disparte per un anno, se va bene, e poi tornano in città scrivendo dei libri e facendo conferenze per parlare della loro esperienza.

Quelli erano solo dei turisti.

Che si fermavano un po’ più a lungo degli altri, ma in fin dei conti sempre turisti erano.

Giunto sulla dorsale del crinale si nascose dietro a dei cespugli ed attese. Sapeva che sarebbe venuta, era un po’ che la stava tenendo d’occhio.

Dopo circa una ventina di minuti, infatti, eccola.

La volpe spuntò sul crinale e si fermò a lasciarsi coccolare dai raggi del sole, alzando il musetto per prendere un po’ di aria alla gola.

Il vecchio l’aveva già nel mirino.

Le braccia erano salde, il respiro regolare.

Attese ancora un istante e, infine, premette il grilletto.

Soddisfatto abbassò il fucile, chiuse gli occhi ed inspirò a fondo.

Il caldo profumo della primavera gli invase le narici ed un sorriso gli spuntò tra la barba.

Riaprì gli occhi e vide la volpe scendere il crinale e andare ad accucciarsi poco distante dalla porta d’ingresso del casolare.

“Piccola bastarda”, disse ridendo, “sei fortunata ad essere nata ora che sono vecchio. Solo vent’anni fa saresti finita nel mio sacco. Ma ora per me non ha più senso ammazzare. Il cibo me lo danno confezionato, non sarà il massimo, ma ho da mangiare. Sparare non ha più senso”.

Si sedette nell’erba e poggiò il fucile scarico accanto a sé.

Era un cacciatore, quella era la sua natura.

E se smetti di essere ciò che sei, sei morto.

Non riusciva a vedersi seduto in un bar a bere grigioverde come i suoi coetanei. Morti che camminavano, ecco cos’erano.

Finché era in vita aveva bisogno dell’ebrezza della caccia.

Il muoversi tra i boschi, l’accucciarsi dietro ad un albero, lo sdraiarsi nel fango, il sentire i suoni e i profumi del bosco, il tenere la preda sotto tiro.

Sparare non era che l’atto conclusivo, ma la caccia era più di quello.

Sorrise nuovamente alla volpe mentre si rialzava lentamente.

“Parli alle volpi e vai a caccia senza proiettili. Vecchio, mi sa proprio che stai rincoglionendo”.

Messo via il fucile, si rimise il sacco vuoto sulle spalle.

E con passo leggero e pensante, si avviò verso la sua tana.

Il cerbiatto, di Giulia Colombo
(Instagram: giuliacolombo_design)