Il libro per adulti

“Vergognoso. Licenzioso. Al limite dell’indecenza”.

L’editore seguitava a scuorere il capo mentre sfogliava le pagine del faldone che aveva dinanzi, poggiato sulla scrivania.

Voltava le pagine prendendo i fogli tra i polpastrelli di pollice ed indice, tenendoli a distanza come fossero infetti, un’espressione di disgusto in viso.

“Ma come si è permesso?”, domandò al giovane seduto dall’altra parte della scrivania, “e sì che il suo curriculum pareva quello di una persona istruita. Come ha potuto, anzi, come le è venuto in mente di scrivere una porcheria del genere?”.

Il giovane teneva lo sguardo basso, senza rispondere.

“Quando si era presentato nel mio ufficio per espormi la sua idea”, proseguì l’editore, “mi era sembrata interessante e potenzialmente inseribile in una fetta di mercato già consolidata. Ma poi se n’è uscito con questo libro per adulti. Un libro per adulti! Nella mia casa editrice di cui serbo l’orgoglio di non aver mai e poi mai e, ribadisco, mai! pubblicato qualcosa di anche solo vagamente licenzioso!”.

Il giovane continuava a tenere lo sguardo basso, mentre l’editore, lentamente e con disprezzo, voltava le pagine dello scritto.

“E questi disegni poi!”, proseguì, ” questi disegni! Sono così realistici! Non poteva, almeno le immagini, almeno quelle, lasciarle abbozzate, un pò più vaghe. Guardi, guardi questa! Si vede tutto. Tutto!”.

Il giovane alzò timidamente lo sguardo ed osservò prima l’immagine, poi il volto sdegnato dell’editore.

“Pensavo di fare una cosa buona”, sussurro’, “non ci sono libri del genere in circolazione. Insomma, se un ragazzo volesse scoprire come…”.

“Se un ragazzo volesse… se un ragazzo… oh perbacco! Un ragazzo che volesse scoprire queste cose dovrebbe essere tempestivamente e fermamente dissuaso! Non si può permettere che un giovane con tutta una vita davanti indulga su simili fantasie”.

“Ma… io l’ho fatto”, intervenne il giovane, “e…”.

“E il risultato è sotto gli occhi di tutti!”, tuonò l’editore, ” anzi no, fortunatamente non di tutti. Perchè ci sarò io ad impedirlo! Questo lavoro non verrà pubblicato, di certo non dalla Forster & Forrester e figli. Prego!”.

E, con un gesto imperioso della mano in direzione della porta, invitò il giovane ad uscire.

“Grazie per il suo tempo”, disse questi una volta raggiunta la soglia, “arrivederci”.

“Forse”, rispose l’editore senza alzare lo sguardo.

Uscito dalla casa editrice, la prestigiosissima Forster & Forrester e figli, il giovane James ritrovò il suo amico Thomas che si era reso disponibile ad accompagnarlo e lo aveva anche cortesemente aspettato.

“Allora?”, domandò Thomas, “com’è andata?”.

James scosse il capo, affranto.

“Niente, neppure con questa”, rispose, “l’editore è stato categorico. Non si pubblica materiale così licenzionso nella sua rispettabilissima casa editrice”.

“Licenzioso…”, mormosò Thomas tra sè e sè, “questa è nuova. Aspetta che me la segno”.

E, così facendo, finse di estrarre di tasca un taccuino e di scarabocchiarvi sopra delle note.

“Dài sto scherzando”, disse dopo aver visto il volto dell’amico farsi sempre più funereo, “licenzioso. Con tutte le schifezze che vengono pubblicate, il tuo almeno è realistico, è basato su prove e dati”.

“Non importa, resta pur sempre un libro per adulti. E i ragazzi non devono indugiare su simili fantasie”.

“Sì, ho capito. Ma se un ragazzo fosse realmente interessato e volesse approfondire l’argomento, quali altri strumenti avrebbe a disposizione? Su, forza, dimmelo. E non parlo dei vostri testi universitari, eccessivamente pomposi e complicati, ma di qualcosa che sia più alla loro portata”.

James scosse il capo.

“Thomas, finiscila per favore che è già sufficientemente difficile. E poi, ripeto, l’editore è stato categorico: non si pubblicano libri sui dinosauri per adulti. Stop, fine della questione. Se voglio avere una possibilità di vedermi pubblicato qualcosa, devo rassegnarmi a scrivere il solito, ridicolo, libricino per bambini, coi dinosauiri rotondetti e sempre sorridenti. Come possano poi sorridere nella stessa vignetta, uno accanto all’altro, un T-rex ed un triceratopo rimane un mistero. Quello sì che è al limite dell’indecenza. Triceratopo che poi altri non è che il pasto del Tirannosauro. Sarebbe come disegnare un pollo che sorride mentre sta per essere spennato ed infilzato sopra uno spiedo”.

“Mi spiace, conta poco, ma ti capisco”, continuo’ Thomas, “ma anche te, però, fammi capire, non voglio girare il dito nella piaga, ma… non potevi andare a studiare… sociologia?! No, perchè proprio i dinosauri? A che cavolo serve studiare i dinosauri?”.

“Perchè i dinosauri…”, rispose James e, mentre lo diceva, un sorriso fece capolino sotto la folta barba, “perchè i dinosauri sono una figata pazzesca!”.

Lo stegosauro, di Giulia Colombo

Metanoia

Gli occhi cominciarono nuovamente a bruciare.

Da quanto tempo stava salendo?

Li chiuse per qualche istante e li sentì lacrimare.

Respirò a pieni polmoni, lasciando che le lacrime solcassero le guance, dopodiché strabuzzò gli occhi, li riaprì e rimise a fuoco.

Erano immersi in una candida distesa di neve e ghiaccio.

Il riverbero del sole li accecava.

Ciononostante, un passo dopo l’altro, continuavano a salire.

Un passo dopo l’altro, mentre i respiri li inseguivano.

Da quanto stavano salendo?

Ebbe la tentazione di controllare l’orologio, ma poi resistette.

Ne avevano ancora da fare e controllare l’ora sarebbe stato inutile, anzi, addirittura controproducente.

Doveva salire, non importava quanto tempo ancora avrebbe richiesto.

Non poteva rimanere indietro.

Non dopo tutto quello che aveva fatto per prepararsi.

Non era mai salito così in alto.

Faceva freddo.

Ma lui si era preparato.

Si era abituato al freddo.

Bonatti bivaccava di notte sul terrazzino ed anche lui aveva fatto lo stesso.

Il freddo.

Il freddo aveva imparato a conoscerlo bene.

The Dark Side Of The Moon.

Ecco cosa gli ricordavano.

Come da un prisma la luce usciva scomposta in tutte le sue componenti spettrali, dalla pista immacolata scendevano decine di tute colorate.

Le osservava mentre si trovava sulle piste da sci, per abituarsi al freddo.

Stava studiando il ghiaccio e la neve.

Doveva conoscerli bene per essere pronto per il progetto che stava preparando.

Neve e ghiaccio, le materie evanescenti.

Scalare su ghiaccio era come nuotare.

Di fatto ci si muoveva su molecole d’acqua.

Due atomi di idrogeno, uno di ossigeno.

Legati su di una distesa che a tratti pareva infinita.

Mari solidi.

Che stana la montagna.

Pensò alla forma del mondo come descritto nella Bibbia: acqua e terra.

Le acque e la terra che le divideva.

Le acque di sotto e quelle di sopra.

Era così inverosimile?

Il mare, poi la terra, poi, salendo sulle montagne, fossili di animali marini ed infine i ghiacciai, quindi ancora acqua.

L’acqua che evapora si condensa e cade nuovamente depositandosi in cima alle montagne.

Riaprì gli occhi e vide cadere la neve.

Pensò a tutti quei piccoli cristalli.

Così simili, ma così diversi.

Aveva letto che dei ricercatori giapponesi ne avevano catalogati oltre tremila esemplari differenti.

Dava di che riflettere.

Ogni fiocco di neve, oltre ad essere differente nella dimensione, lo era anche nella forma.

Quella distesa bianca, che gli pareva tutta uguale, era composta da una moltitudine di forme differenti.

Ogni fiocco che gli cadeva addosso poteva essere diverso dal precedente.

Assecondava i pensieri, per non dar peso alla fatica.

Cristalli.

La parola stessa aveva qualcosa di poetico.

Rimandava a qualcosa di prezioso, qualcosa da custodire gelosamente.

Ed in effetti era così, si trovò a riflettere.

I cristalli erano composti di acqua, fonte di vita.

L’acqua era alla base della neve, l’origine di quel candore, di quell’incanto.

Pensò agli atomi come note musicali.

Così come sette note potevano dare origine ad una ballata, ad un’opera, ad un brano metal, così i tre atomi che compongono l’acqua potevano originare un placido ruscello, l’impeto di una cascata, la delicatezza di una stalattite, la potenza di una valanga.

Scalare sul ghiaccio era davvero un po’ come andare per mare.

Le picozze erano i suoi remi.

Si fermò nuovamente.

Cominciava ad essere veramente esausto, ma quel concatenamento era troppo importante per lui, ci aveva investito troppo tempo ed energie.

Non poteva mollare.

Cercò di recuperare e riannodare tra loro i pensieri.

Doveva tenerli legati a sé, perché pensare lo aiutava a non sentire troppo la fatica.

Tenerli legati, legami, legami covalenti, l’acqua, ecco sì, li aveva ritrovati.

Acqua, ghiaccio e ancora acqua.

I ghiacciai come oceani, lui come marinaio.

Era ancora giovane, ma in quel momento si sentiva come il vecchio descritto ne “Il vecchio e il mare”, impegnato in una sfida impari.

Lui che si misurava con la montagna.

O meglio, lui che si misurava con la sua forza di volontà.

Era sufficientemente forte?

Poteva scoprirlo solamente andando avanti.

Ripensò al mare.

Alla fine poco cambiava dalla montagna.

Nelle rocce si trovavano i resti di animali marini.

Le rocce stesse erano state sul fondo del mare.

Era forse quindi solamente questione di prospettiva.

O di sensibilità.

Ecco, forse era quello.

In fondo lui era un esploratore.

Alpinista, navigatore, quelli erano solamente titoli, che servivano alla gente per poter catalogare le cose nella giusta categoria.

Alpinista va con montagna.

Navigatore va con mare.

Esploratore, invece, suona sempre troppo vago.

Aveva scelto la montagna perché gli offriva molta più varietà rispetto a quello che poteva offrirgli l’oceano.

Ciò che desiderava era vedere luoghi, voleva riempirsi gli occhi di bellezza.

Fare il pieno di bellezza era qualcosa di estremamente importante per lui.

Cercare la bellezza per sfuggire alla monotonia nella quale il quotidiano cerca sempre di intrappolarti.

Costava fatica, certo, stare fermo era decisamente più semplice e comodo.

Ma lo stare fermo uccide lentamente.

C’erano tanti modi di stare fermo.

Quello fisico, certo, ma anche quello della mente.

Una mente senza sogni, priva di desideri, era una mente morta.

Sognare una cima, invece, desiderare di raggiungerla, era qualcosa in grado di smuovere dal torpore.

Ripensò a tutti gli articoli che aveva letto nei quali si sosteneva che l’importante era il modo in cui si saliva, piuttosto che il raggiungere una cima.

Era tendenzialmente d’accordo, tuttavia non era del tutto convinto.

Raggiungere una cima per lui era importante.

Significava raggiungere un obiettivo, portare a termine qualcosa.

In un mondo in cui sempre più spesso non si vedono i frutti del proprio lavoro, è importante trovare un fine da qualche parte.

Gli occhi ripresero a lacrimare, stavolta con più insistenza.

Li richiuse e si passò le mani sugli occhi per asciugarli.

Doveva fermarsi a riposare un momento, non riusciva a vedere più nulla.

Abbassò lo sguardo, si sforzò di leggere le cifre e fece un rapido calcolo.

Sì, doveva fermarsi a riposare.

Stava scalando ininterrottamente da quattrocento pagine, doveva prendersi una pausa.

Chiuse il libro e spinse un po’ indietro la sedia a rotelle.

Guardò la scrivania.

Era stracolma di libri, cartine, schizzi di montagne e di vie.

Aveva pianificato con cura quel viaggio.

Un concatenamento perfetto, accompagnato dai più grandi scalatori della storia.

Una dietro l’altra, Grandes Jorasses con Cassin, Cervino con Bonatti, Cima Grande con Comici, per poi volare in Karakorum sul Gasherbrum IV di nuovo con Bonatti e per concludere con l’Everest.

Da quando aveva iniziato aveva scalato con i migliori ed era loro grato perché avevano accettato di portarlo con loro.

Avevano riversato le loro emozioni su carta e quelle parole erano diventate la corda che li univa.

Una corda nera d’inchiostro.

Grazie alle loro parole, alla loro sensibilità, era stato in grado di provare le vertigini, di percepire il freddo, provare la stanchezza, la spossatezza, assaporare la gioia e la paura.

Ma l’immaginazione da sola non gli bastava.

Dopo qualche lettura aveva capito che doveva in qualche modo fare la sua parte.

Glielo doveva, per tutte le emozioni che gli avevano donato.

Decise che avrebbe sperimentato lui stesso il freddo, la vertigine, la fatica.

Ripensò alle notti passate sul balcone di casa, immobile, con indosso pile, piumini e coperte.

Gli tornarono alla mente i chilometri macinati sulle ciclabili del suo paese mentre, spingendosi, le mani si facevano più forti e callose.

Aveva sperimentato tutto questo per rendere ancora più reale quello che viveva nella sua mente, grazie alle pagine dei suoi libri.

Quella salita sarebbe stato probabilmente il suo ultimo grande progetto, il suo canto del cigno.

Non rimanevano più grandi scalate, perché gli alpinisti non scrivevano più come un tempo.

Non aveva nulla contro la moderna arrampicata, l’unico problema è che non lo faceva sognare.

Aveva provato ad immedesimarsi, ma il problema era che quelle relazioni parevano dei cifrari, dei messaggi in codice.

6b, 4c, 5c-, 7a-, 8b+.

Sembrava di giocare a battaglia navale.

5a, colpito.

6c, colpito e affondato.

Parlavano di linee, tutte incredibilmente eleganti, certo, ma alla fine vivevano in un mondo tristemente euclideo, in cui dovevano unire dei punti.

Nelle linee più dure si parlava inoltre di passaggi obbligati.

Obbligati?

Era salito in montagna per sfuggire ad una quotidianità intrisa di obblighi e doveva ritrovarseli pure lì?

No grazie, le sue montagne, il suo mondo, era permeato di poesia.

Dov’erano finiti il sudore, l’adrenalina, i cuori che battevano incontrollati?

Che fine avevano fatto le aurore, che tingevano il mondo d’incanto e scaldavano i cuori e le membra?

Che fine avevano fatto i tramonti, le notti passate ad osservare le stelle mentre, tremanti, ci si stringeva nel sacco da bivacco?

Chi li aveva rubati?

O erano fuggiti?

Si erano esiliati, in attesa di qualcuno che si dimostrasse degno di loro?

Dov’era la paura?

Dov’erano quelle emozioni che solo una vera avventura poteva regalare?

Riprese a leggere, riprese a salire.

Pagina dopo pagina, aumentava il dislivello.

C’era quasi, poteva vedere la cima nella sua mente.

Pochissime centinaia di metri.

Solo pochissime centinaia di metri, poi avrebbe coronato il suo sogno.

Il progetto sarebbe stato chiuso.

Chiuso.

Si fermò nuovamente.

Era quello che voleva?

Chiudere quel progetto, certo, ma l’avventura?

Voleva veramente che finisse?

Rimase immobile per qualche secondo.
Voleva veramente che l’avventura finisse?

Esitò ancora per qualche istante.

Infine, tolse il segnalibro e chiuse il libro.

Avventura

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Questa storia partecipa al Blogger Contest 2021

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I Pittori

“Non prendermi in giro”, disse il piccolo Simone al papà.

“Non ti sto prendendo in giro, è vero”.

“Gianfranco, smettila, non ha più tre anni su”.

“Ma Simone, non vedi com’è fatto? Ha pure la tettoia all’ingresso”.
“Papà, gli gnomi non esistono”.

“Beh, se per questo neanche Babb…”.

“Gianfranco!”, lo zittì la moglie in un sussurro assordante.

“Scusa cara”.

“Non ho più tre anni”, disse il piccolo Simone, “ne ho sei. Sono grande per credere agli gnomi”.

“E chi l’avrà fatto quel buco allora?”, domandò il signor Gianfranco.

L’oggetto del contendere era un buco in un faggio, posto all’altezza di circa tre metri dal suolo.

Un buco in un faggio può avere diverse spiegazioni: può essersi formato naturalmente o può averlo fatto un picchio, ad esempio.

In questo caso, invece, il signor Gianfranco voleva far credere al figlioletto che fosse opera degli gnomi, a causa di un particolare alquanto curioso.

Esattamente sopra il cavità del tronco era cresciuto un fungo di una grandezza tale da riparare il buco stesso, quasi fosse una tettoia micotica.

“E la tettoia?”, chiese il piccolo Simone, “chi l’ha messa il fungo tettoia?”.

“Te l’ho detto, gli gno…”, il signor Gianfranco si interruppe dopo aver intercettato lo sguardo della sua signora.

“Spiegagli bene Gianfranco, visto che, sulla carta, saresti un botanico. Anche se come giullare non te la caveresti affatto male”.

Con un sospiro il signor Gianfranco dovette mettere da parte la poesia e tornare alla dura realtà.

“In realtà quei funghi, detti per la loro forma “funghi a mensola”, sono dei parassiti delle piante. Le loro radici si sviluppano sotto la corteccia della pianta nella quale penetrano attraverso delle piccole ferite. Una volta passato lo strato di corteccia, i miceli…”.

“I cosa?”.

“I miceli, le radici del fungo, te l’avevo già spiegato Simone. Comunque, le radici del fungo si sviluppano sotto la corteccia in una fitta rete ed indeboliscono la pianta rendendola più sensibile agli agenti atmosferici e all’attacco di altri parassiti”.

“Bene, grazie caro. Forza, è ora di rientrare”.

La famigliola si avviò per tornare verso casa.

Pochi metri più avanti la signora si fermò indicando dei fiori nel prato.
“Guardate che belli! Sembrano gli occhi della Madonna, ma sono violetti”.

“Li avranno pitturati gli gnomi”.

“Gianfranco!”.

“Papà!”.

“Va bene, va bene, la smetto, la smetto. Torniamo mestamente alla nostra autovettura allora. Saremo più comodi, visto che non c’è già più posto per i sogni”.

S’incamminarono nuovamente, col piccolo Simone che correva davanti ai genitori.

La signora Martina prese per mano il marito e gli diede un bacio sulla guancia, facendo comparire un sorriso sul viso imbronciato.

Avevano appena superato una curva del sentiero, quando dal buco nell’albero sbucò un piccolo cappello rosso, seguito da una testolina barbuta.

“Se ne sono andati?”, chiese una vocina da dentro l’albero.

“Sì”, rispose lo gnomo dal cappello rosso, “forza passami la scaletta di corda”.

Una volta a terra, lo gnomo dal cappello rosso borbottò: “non se ne volevano più andare. E quell’uomo che continuava a parlare di noialtri. Ci mancava solo che venisse a sbirciarci dentro casa. Cosa aveva poi contro la tettoia lo sa solo lui. Forza, calami giù il secchio con l’estratto di violetta. Abbiamo già perso abbastanza tempo e tutti quei fiori azzurri non si pitturano mica da soli”.

Lo gnomo (sketch di P.)

Il capolavoro

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Il signor Luigi aprì gli occhi.

“Ma cosa… No, no, no no no no no, no! Ma che… cavolo!”.

“Luigi, abbassa la voce sveglierai Michele”.

Il signor Luigi non rispose alla moglie perché aveva un lavoro molto più urgente da fare.

Doveva finire di revisionare il suo scritto ed aveva precisamente… due minuti.

“No, no”, mormorò tra sé, “non ce la farò mai. Dannazione!”.

Il motivo di cotanta agitazione era il file word che aveva aperto sul portatile che aveva poggiato sulle ginocchia.

Conteneva un racconto che il signor Luigi, bibliotecario di professione, aveva scritto per una nota rivista di letteratura.

Aveva cominciato a scrivere qualche anno prima per dare forma alle storie che si inventava per sopperire alla noia che talvolta lo coglieva nei monotoni pomeriggi estivi in biblioteca.

La moglie lo aveva incitato ad inviare un racconto a qualche rivista, giusto per vedere se c’era sotto del talento e poteva darvi seguito in qualche modo.

Del talento in effetti c’era, tant’è che il direttore della tal nota rivista, gli aveva chiesto qualche altro racconto.

Soddisfatto del materiale, glie aveva infine chiesto uno scritto più lungo, una ventina di pagine, da inserire, se selezionato, in un’antologia dedicata agli scrittori emergenti.

Il signor Luigi si era molto impegnato ed era tutto sommato soddisfatto del risultato, nonostante ci avesse lavorato solamente nei ritagli di tempo.

Rientrando dalla biblioteca, infatti, trovava la famiglia ad attenderlo a casa: Martina da portare agli allenamenti, Luca al corso di chitarra e il piccolo Michele che…beh, era il piccolo Michele, di due anni. Voleva semplicemente giocare col suo papà.

Fino a tardi.

Molto tardi.

“’A Michelì”, ripeteva sempre il signor Luigi, “fammi stare tranquillo per un po’. Devo finire di scrivere il racconto. Il direttore è fissato con le consegne, non posso tardare”.

In effetti, il signor Rezzonico, il direttore della rivista, era svizzero nel cognome e nello spirito: se chiedeva una consegna entro mezzanotte, doveva essere entro mezzanotte, altrimenti il lavoro veniva cestinato direttamente, senza essere neppure letto.

E l’ora, soprattutto, era quella del suo orologio.

Di conseguenza, tutti i dipendenti ed i collaboratori avevano sincronizzato gli orologi dei propri dispositivi con quello del direttore, in modo da sapere esattamente il tempo che avevano a disposizione.

E il signor Luigi, come dicevamo, in quel preciso momento aveva esattamente due minuti per inviare la mail col suo scritto.

Il problema è che, come gli capitava ormai da qualche sera, si era addormentato mentre ci stava ancora lavorando.

Il problema nel problema era che, ahilui, quella sera si era addormentato con le mani sulla tastiera del portatile.

“Per favore fa che sia solo questo”, disse mentre cancellava le righe di “s”.

Cliccò sul tasto Anteprima e fece scorrere il documento.

“Oddio! No!”.

Il lavoro era un’ecatombe.

Evidentemente si era addormentato, non una, non due e neppure tre volte a considerare le quantità di righe costituite da singole lettere che costellavano le pagine del racconto, interrompendolo nei punti più inattesi, anche a metà di una parola.

Il Signor Luigi uscì dall’anteprima e fece scorrere rapidamente il documento.

La situazione era drammatica.

Era tutto un susseguirsi di righe di “A”, “Z”, spazi, pagine bianche dove probabilmente si era addormentato tenendo premuto il tasto a capo.

Guardò l’ora 23.59.

Non sarebbe mai riuscito a sistemarlo in tempo.

Rimase qualche istante immobile ad occhi chiusi, con le mani sulle tempie.

“Non ci sono alternative”, disse, “lo invio così. Domattina poi lo chiamo e gli dico che per sbaglio mentre ero in bagno mio figlio ha giocato col computer ed ha scritto sul racconto. E gli inoltro la versione corretta”.

Alle 23.59 e 50 secondi (ora del Direttore) il signor Luigi firmò la mail e premette il tasto invia.

Il mattino seguente era a casa in quanto la biblioteca avrebbe aperto il pomeriggio.

Si alzò tardi, alle nove, provato dalla nottata passata a sistemare l’intero testo.

Non fece tuttavia in tempo a prendere il caffè che il telefono squillò.

Era il direttore.

“Ossignore”, pensò,”già lui”.

“Buongiorno Direttore”, disse, “guardi, penso di sapere perché mi ha chiamato”.

“Come ha osato”, disse gelido il direttore.


“Guardi, mi rendo conto”, rispose il sig. Luigi, “posso spiegare”.

“Non mi interessa. Lei non ha idea della situazione”.

“Guardi, davvero, posso comprendere. io…”.

“Mandarmi un lavoro del genere. Così…”.

“Le stavo appunto dicendo…”.

“Lei non sa chi si è presentato questa mattina, così, su due piedi, nel mio ufficio quando ho aperto la sua mail”.

“No Direttore. Chi è…”.

“Nientepopodimeno che il Garlati”.

“Ah”, disse basito il signor Luigi, “nientepopodi…”.

“Uno dei nostri più grandi critici letterari. È entrato così, nel mio ufficio, perché voleva dare un occhio ai lavori dei nostri autori emergenti. Ed avevo aperto il suo lavoro”.

“Guardi, sono mortificato, verame…”.

“Vuol sapere cosa ha detto?”.

“Sinceramente, preferirei di n..”:

“Un genio. Assolutamente un genio”.

“Ma come un ge…”.

“E’ qualcosa di rivoluzionario – ha detto – trascende il metaletterario”.

“In che sens…”.

“C’è un qualcosa di Stevensoniano in tutto questo – ha detto – è dualistico. Ci sono Jekyll e Hyde.

L’artista e lo scrittore”.

“N-non capisco”.

“Quelle interruzioni – diceva – quelle pagine bianche. Quello è l’artista che dal profondo si fa sentire. Perché la sua arte è nel suo pensiero. L’averlo concepito, pensato, quello è il capolavoro. La scrittura è solamente un rozzo tentativo di dar forma al sublime”.


“Oddio, verament…”.

“In quelle pagine vien fuori l’artista che si ribella all’ignobile scribacchino”.

“Beh, non esageriamo. Ignobile scribacc…”.

“E’ l’artista che boicotta lo scrittore, perché vanifica e banalizza il suo pensiero – ha detto. Ed ha detto anche – questo lavoro è rivoluzionario. Dopo di questo… la letteratura non avrà più senso. Scrivere non avrò più senso. Lei è un genio – ha detto – e, citando Bloom, il genio è violento, il genio ammazza. E lei ha ucciso la letteratura.

La voglio domattina nel mio ufficio. Il Garlati vuole conoscerla di persona e vorrebbe curare una sua monografia. A domani”.

Il signor Luigi rimase immobile con telefono a mezz’aria.

Si ridestò per un gemito per piccolo Michele che stava gattonando verso di lui.

“Hai sentito Michelì? Papà… è un genio”.

Il trono

Ricordo che nella foresta si trovava un trono.

Era poco distante dal sentiero, verso monte, di modo che i viandanti potessero vederlo passando.

La sede era in pietra, di un calcare adamantino che solo il tempo avrebbe potuto scalfire.

I ragni avevano tessuto tele che lo ornavano come drappi di seta, le trame rese argentee dai raggi della luna.

Sopra la seduta, un cuscino di foglie fatte cadere dai faggi, le cui radici erano sgabelli per i piedi del sovrano.

Da tempo il trono era abbandonato, come se la corona avesse lasciato il suo reame.

Ora, passando, finanche il trono sembra essere smarrito.

Dov’è fuggita la corona?

Chi ha esiliato il re della foresta?

Potrà mai fare ritorno, senza qualcuno che ne ricordi il trono?

Il sabato sera

La piccola Susanna già da tempo sospettava che il sabato sera avesse qualcosa di speciale.

Lo aveva intuito dal fatto che molti più giovani si ritrovavano nel bar davanti a casa sua dall’altra parte della strada e dal fatto che il loro vociare si protraeva fino a tarda notte rispetto ai giorni che la mamma chiamava feriali.

E… dalle piante.

Eh sì, le piante che aveva in casa, il sabato sera avevano un comportamento a dir poco sospetto.

Se n’era resa conto proprio un sabato sera, in quanto le piante le erano sembrate più… agitate.

Era ormai un mesetto che la mamma le aveva affidato le piante da innaffiare e lei ogni sera dava loro un po’ di acqua per dissetarsi.

Prendeva la bottiglia dell’acqua vuota, la riempiva con l’acqua del rubinetto e faceva il giro dei quattro vasi che avevano in soggiorno.

Il sabato sera faceva sempre il giro delle piante con la bottiglia, però usava quella del vino, perché il papà lo beveva con la pizza, al posto della birra che gli dava noia.

Doveva essere proprio insopportabile la birra, perché il papà di solito era paziente ed ascoltava tutti con interesse, sopratutto lei quando gli raccontava della scuola.

Ad ogni modo, il sabato sera le piante si comportavano in modo strano, erano più vispe.

Ne aveva avuto conferma proprio la settimana appena passata.

Aveva innaffiato le piante con la bottiglia di vino riempita d’acqua e poi era andata con la mamma e il papà a prendere un gelato.

Avevano lasciato le finestre aperte perché era estate e faceva caldo.

Una volta rientrati le piante erano più verdi e quelle nel vaso sul mobiletto della televisione sembravano rivolte verso quelle sul davanzale accanto alla finestra.

Era un fatto insolito, perché di solito quelle della televisione stavano sempre rivolte verso il basso come se fossero stanche di ascoltarla parlare di continuo di cose noiose.

Il sabato sera invece erano rivolte verso quelle della finestra.

Il papà diceva che stavano parlando tra di loro grazie alla finestra aperta.

Perché le piante, grandi e piccole, parlano attraverso il fruscio, ma per farlo hanno bisogno del vento.

Però anche durante la settimana le finestre la sera erano aperte e quindi era strano che solo il sabato sera si parlassero.

Forse erano euforiche.

Sì, probabilmente erano euforiche, perché il sabato vedevano il papà che beveva dalla bottiglia di vino e poi lo facevano anche loro.

Il sabato sera, sketch di P.

Il Venerdì sera

Il Dr. Montini ne stava uscendo davvero pazzo.

Quell’enigma lo stava esasperando e doveva assolutamente trovare una soluzione al più presto.

Ne andava non solo della sua salute psicofisica, ma anche della sua professionalità.

Luca Montini, fisico dello stato solido, osservava con aria corrucciata lo stereo che aveva di fronte.

Era un apparecchio praticamente nuovo, comprato sei mesi prima, dopo che il precedente aveva tirato le cuoia dopo anni ed anni di onorato servizio rockettaro.

Lo stereo che stava fissando era perfetto.

Aveva impiegato un tempo esagerato a scegliere il modello più adatto alle sue esigenze ed era ancora fermamente convinto del suo acquisto, la cui resa sonora lo entusiasmava ad ogni ascolto.

Unico neo: talvolta lo stereo si accendeva da solo.

Negli ultimi due mesi gli era capitato diverse volte di rientrare a casa dal lavoro e trovare la sua musica preferita ad accoglierlo.

Ora, non che fosse un grosso problema, anzi, era finanche piacevole, tuttavia non trattandosi di un dispositivo dotato di IA non poteva prendere l’iniziativa e decidere lui quando fare partire la musica.

Il povero Luca ne aveva provate di ogni.

Lo aveva smontato, ma non aveva trovato nulla fuori posto.

Lo aveva schermato, sapendo bene quanto i raggi cosmici potessero influire sull’elettronica degli apparecchi di casa.

Niente.

Lo aveva smontato nuovamente, analizzando ogni circuito, ogni resistenza, ogni condensatore, ogni pista.

Aveva passato serate intere davanti all’oscilloscopio, ma nulla, tutto sembrava perfettamente a posto.

Il poveraccio era esasperato.

Va bene, lo stereo era ancora in garanzia, ma lui, proprio lui, che dell’elettronica aveva fatto il suo mestiere, non poteva non riuscire a risolvere quel mistero.

Un angolino remoto del suo cervello cominciava infatti ad essere rosicchiato dal tarlo dell’insicurezza.

Da qualche mese aveva cambiato lavoro, approdando in un’azienda molto più strutturata della precedente e in cui aveva un incarico di maggiore responsabilità come capo laboratorio di analisi.

Lavorava con componenti di ultima generazione, ne scovava i difetti e pensava a soluzioni per migliorarli ed in quel momento era stato messo in ginocchio da un banalissimo stereo.

No, non era solo una questione personale, era anche professionale.

Non osava parlarne al lavoro perché aveva il terrore che uno qualsiasi dei suoi ragazzi potesse trovare la risposta al posto suo, lo smacco sarebbe stato troppo grande, soprattutto perché era arrivato da troppo poco tempo ed aveva ancora molto da dimostrare.

Cercò di concentrarsi e ricominciare con metodo.

Dunque, lo stereo all’inizio aveva sempre funzionato correttamente.

Le bizzarrie erano cominciate poco dopo aver cambiato lavoro.

Sentiva molto di più la responsabilità, certo, quindi la sera dopo cena riprendeva spesso a lavorare e non si gustava più qualche buon album sdraiato sul divano e con un libro in mano.

Se non lavorava, andava a correre, in quanto si stava preparando per una corsa in montagna.

Da pochi mesi si era ripreso da un infortunio ed il mese prima era riuscito ad arrivare primo ad una corsa campestre organizzata in uno dei paesi vicini. Era riuscito a stabilire un nuovo record sulla 26 km, nonostante fosse partito in ritardo perché rimasto chiuso nel bagno degli spogliatoi.

Ad ogni modo, gli venne in testa un pensiero assurdo: forse stava trascurando il suo stereo.

Che sciocchezza.

Scosse la testa e riprese ad analizzare la situazione.

Gli venne il dubbio che l’apparecchio potesse avere un sistema di programmazione che lo faceva accendere ad un determinato orario, come una sveglia, e magari lui lo aveva attivato per caso.

Rilesse quindi tutto il manuale d’uso.

Niente.

Lo stereo non era programmabile.

Quella notte andò a dormire sconsolato.

Il giorno seguente al lavoro fu una giornataccia.

Il suo capo gli diede ulteriori lavori da sbrigare ed erano già indietro con le analisi.

I clienti premevano e loro dovevano buttare fuori i prodotti nuovi.

Stress, sempre più stress.

Mentre tornava a casa in macchina cercava di non pensare al lavoro, ma i problemi continuavano a tornare a galla.

Ad un tratto, squillò il telefono.

Era Gianni, l’amico con cui fino a qualche tempo prima andava in montagna assieme.

Rispose dall’auricolare.

“Ciao Gianni. Come va? Dimmi tutto”.

“Ué bello. Come sta andando il lavoro nuovo?”.

“Lascia perdere. Mi stanno spremendo. Siamo indietro coi test, c’è pressione. Insomma, un casino”.

“Mi sa allora che arrivo a fagiuolo, come si suol dire. Senti un po’, che ne diresti domani di andare a fare il Campaniletto? Così riprendiamo un po’ ad arrampicare. Va bene correre, ma non dimenticare il resto né? Dài, che ne dici?”.

“Non saprei, è un po’ che non arrampico”.

“Appunto, dài, non avresti voglia di riprendere?”.

Luca stava per rispondere che era meglio di no, aveva in testa il lavoro e quasi avrebbe approfittato della calma del sabato mattina per sistemare dei report che aveva arretrati. Poi però il ricordo delle scalate tornò a bussare alla sua mente. Riprovò quelle emozioni, quella paura, quelle soddisfazioni. Sentì il cuore pulsare e qualcosa nella mente che cercava di farsi un varco nella coltre di pensieri e preoccupazioni lavorative: il desiderio di un poco di avventura.

“Gianni, ma sai che ti dico? Va bene cavolo! Oh, vai te da primo né?”.

“Non se ne parla, un tiro a testa. Ottimo, son contentissimo. Passo a prenderti io domattina alle 7.00. Ciao bello, buona serata!”.

Nel frattempo, Luca era arrivato a casa.

Stava ancora pensando alla montagna quando, mentre girava la chiave nella toppa, sentì della musica nel suo appartamento.

Ci risiamo”, pensò, “ma che cavolo”.

Entrato in casa, stava per andare a spegnere lo stereo che andava per conto suo, quando si fermò a pensare.

Meditò sul fatto che negli ultimi mesi tutte le sere erano diventate uguali. Lavorando spesso anche il sabato da casa, non faceva più caso al tempo scandito dai diversi giorni.

Si concentrò e, dopo qualche minuto, realizzò che lo stereo non partiva a caso, ma sempre di Venerdì.

Rimase a fissarlo ed infine pensò che forse, per quanto assurdo, non v’era alcun mistero da risolvere.

Quello stereo, in un modo sì un po’ oscuro, forse voleva semplicemente ricordargli che il Venerdì sera non è una sera come le altre, ma è quel momento che segna il confine oltre il quale i pensieri devono scivolare via per permetterci di tornare a gustarci il tempo e la vita.

Luca non spense lo stereo, con un sorriso si cucinò qualcosa e poi preparò lo zaino per il mattino seguente.

E, dopo tanto tempo, quella sera si ritrovò sul divano a leggere un libro con una birra da parte, mentre i pensieri volavano via trasportati dalle note di Where Eagles Dare dei sempre ottimi Maiden.

Il Fantasma tra le fronde

ncdjsk è un fantasma.

O, meglio, era un fantasma, dato che lo stato di realtà in cui si trova in questo momento lo ha portato ad avere una consistenza più simile a quella di un lenzuolo.

Un lenzuolo incastrato tra le fronde di un albero spoglio.

Una situazione decisamente deprecabile.

ncdjsk non ha colpa alcuna a tal proposito, anzi, per dirla tutta, non ha neppure coscienza di quanto gli sta capitando.

ncdjsk, infatti, non possiede una volontà propria, da qui il nome totalmente causale, ma è fatto di volontà.

La volontà delle persone a credere alla sua esistenza.

La gente non lo sa, ma la realtà in cui viviamo è, di fatto, frutto di quanto essa stessa crede.

Più persone credono nella stessa cosa e più questa assume una consistenza di realtà.

Prendiamo la Terra ad esempio: la Terra potrebbe avere una forma qualunque.

È sferica solamente perché la maggior parte delle persone crede che lo sia.

Però un certo numero di individui è convinta del contrario, ovvero che sia piatta.

Da qui i terremoti.

I terremoti sono semplicemente il frutto dell’indecisione della Terra, che è sferica, ma ogni tanto tende ad appiattirsi e questi movimenti le causano delle rotture.

Non siete convinti?

Uhm… vediamo… la pace è un altro esempio.

La pace non esiste perché non tutti sul pianeta ci vogliono credere.

Ogni tanto ci si avvicina, ma poi qualcuno cambia idea ed allora essa perde il suo stato di realtà e diviene meno nitida.

Ma torniamo a ncdjsk.

ncdjsk ha assunto consistenza una notte di Halloween.

C’erano tanti bambini, tutti travestiti per fare dolcetto o scherzetto tra le case del quartiere, mentre nella piazzetta a fianco un gruppo stava suonando musica dal vivo.

C’era un buon impianto luci e le coreografie luminose erano davvero vivaci.

Ad un tratto un fascio di luce illuminò di striscio un albero vicino al quale si era radunato un folto numero di bambini.

Un paio di questi videro il bagliore e immediatamente gridarono “è un fantasma! Un fantasma! L’avete visto?”.

Inizialmente gli altri bambini risposero di non aver visto nulla, ma poi un secondo bagliore, sempre dovuto al concerto, attraversò le fronde dell’albero.

A quel punto anche gli altri ragazzini gridarono “sì, l’abbiamo visto anche noi! È un fantasma, è proprio un fantasma!”.

E fu grazie a questa concentrazione di credulità che ncdjsk cominciò a prendere forma.

Dapprima era trasparente, o meglio, era anch’esso simile ad un fascio luminoso tra le fronte.

Ma poi, più ci pensavano, più i bambini si convincevano della sua esistenza e, di conseguenza, anche ncdjsk diveniva sempre più nitido.

Il problema è che nessuno ha mai visto un fantasma, quindi i ragazzi dovevano attingere alla loro esperienza, dovevano ricorrere al reale per dare forma alla realtà.

E tutti i bambini pensarono quindi al piccolo Simone, vestito col vecchio lenzuolo bianco sgualcito con due buchi per gli occhi.

Tra le fronde dell’albero ncdjsk divenne quindi sempre più reale, ma sempre più simile ad un lenzuolo, raggiungendo in breve tempo una consistenza di materia tale da farlo rimanere impigliato tra i rami spogli del decrepito albero.

La notte passò, i bambini raccontarono ai genitori di aver visto un fantasma e poi, sotto le coperte, ancora pensavano al fantasma tra le fronde.

Questi pensieri li accompagnarono nel sonno e ciò permise a ncdjsk di rimanere ancorato al reale, nel suo caso, impigliato tra i rami di un albero.

Il mattino seguente molti bambini tornarono a vedere il fantasma accompagnati dai genitori, i quali spiegarono loro che si trattava solamente di un pezzo di stoffa.

I ragazzini naturalmente si convinsero delle parole dei genitori e ncdjsk rimase di conseguenza impigliato sull’albero.

Prima o poi la sua consistenza sarebbe venuta meno se non fosse stato per il fatto che i passanti, passeggiando sul marciapiede sotto l’albero, ogni volta commentassero dicendo “è ancora lì il lenzuolo?”.

E ncdjsk si rafforzava nel suo stato di materia tessile.

Ed ora ncdjsk si trova ancora tra quei rami, ma non è rassegnato, in quanto non ha volontà.

Ciò che gli resta da fare, se così si può dire, è affidarsi al reale, ovvero lasciare che il suo stato di realtà venga degradato dalla realtà stessa.

Quindi approssimativamente in dieci mesi.

A meno che il lenzuolo del piccolo Simone non fosse stato sintetico, in tal caso anche 30 – 40 anni.

Patate che raschiano

Toni più cupi questa sera per quello che, nelle intenzioni, vuole essere un umilissimo omaggio al “solitario di Providence”.

P.

H. P. Lovecraft (1934)
Fonte: Wikipedia

Patate che raschiano

Sono solo le radici, dicevano.

Certo, ma le radici non hanno occhi.

Ricordo esattamente quando tutto ebbe inizio.

O, perlomeno, quando l’incubo bussò alla mia porta, il vero inizio probabilmente risaliva a qualche milione di anni prima.

In ogni caso, l’incubo raschiò nella mia vita quando avevo sette anni.

Una notte mi alzai perché avevo sete.

Andai in cucina e presi una sedia per raggiungere il succo di mandarino sulla mensola sopra il microonde.

Io preferivo il succo ai mirtilli, ma mia mamma ripeteva sempre che quello al mandarino era più salutare.

In ogni caso, salii sulla sedia e, mentre stavo prendendo il succo, sentii raschiare dal mobiletto in basso, che la mamma usava come dispensa.

Mi fermai ed ascoltai con maggiore attenzione.

Niente.

Scesi piano dalla sedia, la misi a posto e mi allontanai un poco.

Rimasi in silenzio.

Dopo qualche istante, ecco di nuovo quel rumore.

Spensi la luce e corsi in cameretta a prendere la torcia che i miei genitori mi avevano regalato l’estate precedente per la mia prima notte in campeggio.

Tornai silenziosamente in cucina.

Ad intervalli regolari si sentiva raschiare.

Ero certo si trattasse di un topolino e volevo vederlo.

Lentamente mi avvicinai al mobiletto.

Attesi di sentire nuovamente quel suono dopodiché puntai la torcia ed aprii di scatto l’antina.

Cacciai un urlo e la richiusi.

Corsi in camera dei miei.


“Luca, Luca che succede?”, chiese mia mamma ancora mezza addormentata.

“Sentivo un rumore in cucina, sono andato a vedere, ho aperto la dispensina e c’erano tantissimi occhi ad osservarmi. Appena mi hanno visto si sono richiusi. Ho paura, mamma, ho paura, va a vedere”.

Mio padre sbuffò e si girò dall’altra parte.

“Luca, hai fatto solo un brutto sogno, va a dormire.”

“Mamma, no, volevo il succo e ho sentito raschiare. Pensavo fosse un topolino, ma erano tantissimi”.

Mi madre esasperata mi seguì in cucina.

Le dissi di fare attenzione mentre stava per aprire la dispensa.

Io ero rimasto indietro, e la osservavo da dietro il tavolo.

“Oh, ecco qua”, disse mia madre, “ecco il tuo topo”.

E mi mostrò cos’aveva in mano.

“Ma non è un topo”, dissi, “guarda meglio”.

“Non c’è altro, è vuota. Sono due giorni che dico a tuo padre che dobbiamo andare a fare la spesa”.

“Cos’è? È quello che ha gli occhi?”.

“Luca, è una patata”.

“Ma quei cosi?”.

“Sta germogliando, sono solo le radici penso. È normale. Mi dev’essere caduta dal sacchetto senza che me ne accorgessi ed ha cominciato a germogliare”.

“Ma ho visto degli occhi”.

“Sarà stato un riflesso. Eri ancora mezzo addormentato e ti è sembrato di vedere degli occhi. Ma non ha occhi, vedi? Basta, non ci pensare”.

Non ci pensare.

Io non ci pensai, ma non pensare non è una soluzione.

I pensieri, come gli oggetti, vanno organizzati e sistemati.

Tutti pensano all’inconscio come qualcosa che sta giù, nel profondo, una cavità nella quale si annidano i pensieri.

Io credo invece che sia il contrario e stia in alto, come una soffitta.

La testa è in alto, come le soffitte, ed è lì che si ripongono le cose che non si usano.

E quando si portano le cose in soffitta bisogna sistemarle, organizzarle, classificarle, per sapere cosa sono e dove si trovano.

Se mia madre mi avesse detto: “è stato solamente un incubo perché…” e mi avesse anche dimostrato che quanto avevo visto era solamente il frutto della mia immaginazione, io avrei etichettato quell’episodio come incubo e lo avrei sistemato in soffitta nella sezione incubi.

Invece mi aveva detto solamente “non ci pensare”.

Io non ci pensai, ma quello equivalse a appoggiare il pensiero, come se, salito in soffitta, lo avessi abbandonato da qualche parte e me ne fossi andato senza curarmene.

Ma quando le cose non si sistemano, prima o poi ce le si ritrova tra i piedi.

Io me lo ritrovai tra i piedi una volta che ero al supermercato.

Mi ero da poco trasferito a vivere da solo e stavo facendo la spesa quando la mia attenzione fu attratta dal sacco di patate che avevo appena messo nel carrello.

Inciampai nel pensiero che avevo lasciato in giro quando vidi i germogli su una patata.

Nella mente risentii il raschiare dalla dispensa a fianco del forno e gli occhi che mi fissavano dal buio.

Ebbi un momento di… sì oso definirlo panico, che, col senno di poi, era totalmente giustificato.

Feci una foto con lo smartphone alla patata e poi lasciai giù il sacco e segnalai la cosa ad un commesso.

“Sì, è normale, dopo un po’ germogliano, basta staccarli, non succede niente”.

Tornai a casa imbarazzato per la risposta del commesso.

Eppure non potevo fare a meno di sentirmi un poco turbato.

Il pensiero di quelle forme che uscivano dalla patata aveva ormai invaso la mia mente.

Andai al computer e scaricai la foto che avevo fatto al supermercato.

C’era qualcosa che non andava in quelle escrescenze.

Quella forma era sbagliata.

Era… malvagia.

Se aveste letto queste righe solamente un anno fa mi avreste preso sicuramente per pazzo, motivo per quale ho deciso di attendere a buttar giù questo scritto.

Eppure fin da subito avevo compreso che qualcosa non andava.

Fin dall’età di sette anni, quando avevo scoperto dell’esistenza di quelle deformità, anche se ancora non avevo compreso l’entità di quegli abomini.

Andai su internet a cercare informazioni su quei germogli.

Spulciai diversi siti ove spiegavano come, in determinate condizioni di umidità, calore e luminosità, le patate potessero germogliare sviluppando sulla superficie i caratteristici occhi bianchi.

Ed ecco nuovamente gli occhi.

Eppure era solo una definizione, un modo che doveva risultare simpatico per descrivere quelle oscenità.

Andai avanti a leggere e scoprii che quei germogli erano ricchi di solanina, una sostanza tossica che funziona come pesticida naturale contro funghi, batteri e insetti.

Se assunta in elevati quantitativi può avere effetti anche sull’uomo, effetti che, in funzione della quantità, possono variare da un blando stato di nausea fino a provocare emorragie.

Continuai a scorrere le pagine e gli articoli, da siti obiettivamente più o meno discutibili, fino a quando notai il titolo di un articolo nelle ultime pagine del motore di ricerca che mi fece rabbrividire.

Patate che raschiano.

Rimasi interdetto per qualche istante.

Rilessi, ma quelle due parole mi rimandavano prepotentemente indietro a quella notte di ventitré anni prima.

Patata.

Raschiare.

Entrai nel sito e lessi l’articolo.

Di fatto, l’autore descriveva un’esperienza esattamente identica alla mia: le sue notti erano disturbate da un raschiare proveniente dalla dispensa.

Inizialmente anche lui aveva pensato ai topi.

Tolse praticamente tutto dalla dispensa, poi gli venne un’intuizione: lasciarvi solamente una patata, una sacrificabile, con già i germogli, con dentro del veleno per topi.

Se il topo l’avesse mangiata in breve sarebbe morto.

Attese per tre notti.

La prima sentì raschiare, ma il mattino dopo la patata era intatta.

La seconda sentì raschiare, ma il mattino dopo la patata era intatta.

La terza… sentì raschiare.

Qualcosa non andava, il topo entrava, non si sa da dove, dentro un mobiletto, non mangiava e continuava a raschiare.

Decise di controllare di persona.

Prese una torcia ed aprì il mobiletto.

All’interno vi era solamente la patata.

Nient’altro.

Nessun segno di roditori, ma questo ormai l’aveva capito.

Un’idea folle si fece strada nella sua mente.

Convinto di agire come un pazzo si decise comunque a mettere in atto un esperimento al fine di togliersi completamente il pensiero.

Prese la patata germogliata e la mise in un mobiletto in soggiorno, sopra la televisione.

Liberò il mobiletto da quanto vi era riposto e vi mise all’interno la sola patata.

Per precauzione sigillò l’anta con dello scotch per impedire che, non sapeva neppure come, un roditore potesse infilarsi dentro con qualche strano acrobatismo.

La notte trascorse senza alcun rumore.

Più sereno, capì che forse era veramente un topo l’autore del mistero.

Andò al lavoro più tranquillo, la sera uscì con degli amici e rientrò a casa molto più tardi del solito.

Chiusa la porta di casa, stava per andare in camera a dormire quando sentì nuovamente raschiare.

Ed il rumore proveniva dal mobiletto sopra la televisione.

Non poteva essere vero.

Tremante, si avvicinò ed appoggiò l’orecchio all’anta chiusa.

Silenzio.

Rimase fermo in attesa per qualche minuto fin quando ecco riprendere il raschiare.

Accese la luce, tolse lo scotch, aprì l’anta ed ecco… la patata era lì.

L’autore si era fermato ed aveva scritto quell’articolo senza poi approfondire la cosa.

Gli era bastato un articolo simpatico sulle patate che grattano, dopodiché era tornato a parlare di videogiochi e simili.

Quell’articolo tuttavia aveva acceso in me il desiderio di scoprire qualcosa di più.

Iniziai così anch’io una serie di esperimenti.

Misi una patata germogliata in un mobiletto vuoto e lo sigillai come aveva fatto il tizio dell’articolo.

La notte rimasi alzato, ma nulla.

La seconda notte invece, intorno alle due, il raschiare.

Aprii il mobiletto, ed ecco la patata.

Nei giorni seguenti feci la stessa cosa con una patata normale, ma, di notte, non accadde nulla.

Rimisi una patata germogliata ed ecco che, regolarmente, la seconda notte cominciò nuovamente a raschiare.

Annotavo le mie osservazioni su un quadernetto ed ormai avevo capito che era tutto legato ai germogli.

Da questo punto di vista ero metodico: amo, o meglio, amavo correre, quando ancora si poteva correre liberamente, ed organizzavo i miei allenamenti registrando tutto su dei quadernetti.

Misi in atto un altro esperimento: presi una patata normale e la lasciai in un mobiletto.

Dopo una settimana, sentii il caratteristico suono.

Aprii il mobiletto ed ecco i germogli.

Quella faccenda cominciava ad avere un influsso negativo su di me.

Ovviamente dormivo male, ero sempre in tensione, pronto a scattare al minimo rumore.

Al lavoro (ero un commesso in un negozio di articoli sportivi) ero sempre più stanco, ma fortunatamente potevo gestire la cosa, attribuendo la stanchezza ad un periodo di allenamento particolarmente intenso.

Non potevo parlarne con nessuno perché, naturalmente, mi avrebbero preso per pazzo.

Un giorno stavo sistemando su uno scaffale dei barattoli di integratori quando me ne cadde uno in polvere che si aprì sul pavimento.

Stavo per andare a prendere una scopa quando un bambino che stava provando una bicicletta passò sopra la polvere e lasciò la scia delle ruote per qualche metro lungo la corsia.

Mi venne un’idea.

Acquistai in internet una di quelle polveri che diventano fluorescenti se illuminate con gli UV.

La distribuii con un pennello sui germogli della patata che misi poi nel solito mobiletto, subito davanti all’anta, in questo modo la polvere non poteva andare accidentalmente in giro mentre introducevo la patata.

Sigillai il mobiletto e non lo aprii per una settimana.

Una notte tolsi la patata e illuminai il vano del mobiletto con la luce UV.

Sebbene in qualche modo me lo aspettassi, quello che vidi minò ugualmente una delle mie più profonde certezze.

Le scie fluorescenti solcavano tutto il piano ed alcune si alzavano per pochi centimetri sulle pareti.

Le patate possono muoversi.

Per qualche giorno non feci più nulla, poi mi decisi ad attuare un un altro esperimento.

Feci un quadrato di scotch di carta in centro al mobiletto e vi misi in mezzo la patata marchiata con la polvere fluorescente.

Qualche giorno dopo vidi le tracce del movimento della patata, che era tornata esattamente al centro del quadrato.

Nelle settimane seguenti ripetei l’esperimento, ma mettendo la patata in punti diversi del mobiletto.

Ogni volta la patata tornava esattamente in centro al quadrato, magari leggermente spostata, ma pur sempre in mezzo al quadrato di partenza.

Ciò significava che le patate hanno anche una memoria.

Mi decisi a scrivere ad un professore di botanica dell’università.

Feci anche dei video dei miei esperimenti e glieli inviai.

Risultato: nessuna risposta.

Provai con altri professori, ma nulla, solo un paio mi risposero, ma in malo modo.

Ora ovviamente si sono tutti ricreduti, ma ormai è troppo tardi.

Non abbiamo ancora capito se i germogli sono di questo pianeta o se sono arrivati dallo spazio milioni di anni fa e come parassiti si sono insediati nelle patate.

Quello che sappiamo è che senza patate non possono sopravvivere.

Necessitano infatti di un corpo solido per potersi muovere, così come i nostri muscoli necessitano del supporto duro delle ossa per poter lavorare.

Gli scienziati hanno cominciato a studiarli dopo che ci hanno attaccati.

È stato all’improvviso, come se tutte le patate del pianeta si fossero coordinate.

Alle dieci e trenta del mattino del 5 Marzo di quattro mesi fa le patate hanno rilasciato contemporaneamente solanina in forma gassosa ed in quantitativi mai visti prima, provocando nausea, mal di testa, e, in alcuni casi, la morte per intossicazione delle persone che si trovavano in prossimità dei reparti ortaggi.

Avevano scelto il sabato mattina perché avevano capito che in Europa in quella fascia oraria i supermercati erano pieni ed il loro attacco sarebbe stato più efficace.

Dopo questo primo atto hanno lasciato i supermercati e le abitazioni e la guerra ha avuto inizio.

Gli scienziati hanno poi determinato che alcuni germogli sono specializzati come artigli e sono quelli utilizzati per il movimento, altri invece sono gli occhi.

Ora devo smettere di scrivere, tra poco con la mia squadra entreremo in azione.

Sono a capo di una compagnia di estirpatori.

C’è un po’ di tutto, impiegati di banca, operai, studenti, in totale il mio gruppo conta una ventina di uomini.

Ora stiamo per entrare in un vecchio supermercato dove si è rifugiato un gruppo di patate.

Inizialmente è stata dura perché ci hanno colti di sorpresa e il fatto del gas li aiutava a difendersi in quanto non potevamo avvicinarci troppo.

Ora però le forniture di maschere antigas sono migliorate ed abbiamo trovato anche delle armi per combatterli.

E, soprattutto, abbiamo smesso di piantare patate.

“Comandante”.

“Sì?”.

Lo ammetto, è sempre figo sentirsi chiamare comandante.

“Siamo pronti. Cinque minuti e possiamo fare irruzione”.

“Ottimo. Gli altri’?”.

“Eccoli qua pronti”.

“Benissimo. Signori, stiamo per dare un altro colpo a quei bastardi venuti da… qualche parte. Facciamogliela pagare. Datemi un paio di granate, entrerò io per primo”.

“Con quale salsa?”.

“Dammene un paio al ketchup, abbiamo visto che li stordiscono prima rispetto alla maionese. Ok, tutti pronti? Bene, tre, due uno… fottuti tuberi stiamo arrivando!!”.

E via!

Se aspetto che tutto sia in ordine e sistemato come si deve, questo blog non vedrà mai la luce.

Pertanto, sgangherati e raffazzonati, si parte.

Una storia una tantum, per ritrovare noi stessi, perché questo è ciò che ci rende uomini: inventare e raccontare storie.

P.